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Parashat Vayera (Gen. 18,1—22,24)

Ospitalità, speranza e giustizia divina
15 febbraio 2025 di
Parashat Vayera (Gen. 18,1—22,24)
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Parashah (Genesi 18,10-15.22-33)
L'ospitalità come chiave di accesso al divino

Nel cuore della Parashat Vayera, la figura di Abraamo ci insegna che l'incontro con Dio avviene spesso nei gesti più semplici di ospitalità. Abraamo, accogliendo tre sconosciuti sotto la sua tenda, non immagina nemmeno che uno di loro sia il Signore in persona. Non si tratta solo di un atto di gentilezza, ma di un segno di fede profonda, un gesto che trasforma l'ordinario in sacro. La sua accoglienza non è un semplice invito, ma una risposta a una chiamata che proviene dall’Alto. Abraamo non accoglie solo per servire, ma per permettere a Dio di manifestarsi. Questa ospitalità non è solo fisica, ma spirituale: è un'apertura del cuore che rende possibili la benedizione e la promessa. La grazia divina non è mai lontana, ma si manifesta quando siamo disposti ad accogliere il mistero di Dio nelle nostre vite, anche nei modi più inaspettati.

La promessa impossibile e la speranza che non muore

In questo contesto di accoglienza, Dio fa una promessa che sembra incredibile: una vecchia Sarah, ormai rassegnata alla sua infertilità, avrà un figlio. La speranza che viene ridata alla donna non è solo quella di un bambino, ma di un futuro che sembrava ormai svanito. La sua incredulità, di fronte all'impossibile, non è un rifiuto, ma l'inizio di una nuova fede che supera i limiti umani. In questo miracolo si rivela una verità profonda: la speranza non si misura in base alle possibilità umane, ma alla promessa divina, che sempre si compie, anche quando sembra lontana e impossibile. La nascita di Isacco segna l'inizio di una nuova vita, un nuovo capitolo che si apre per un popolo e per tutta l'umanità. La fede, che guarda al futuro con fiducia, diventa l'anticamera di un miracolo che non ha scadenza.

La giustizia di Dio e l'intercessione di Abraamo

Mentre Abraamo accoglie la promessa, nasce anche in lui una preoccupazione per la giustizia. Quando Dio gli rivela la distruzione imminente di Sodoma e Gomorra, Abraamo intercede per quelle città. La sua preghiera non è motivata da un interesse egoistico, ma dal desiderio che la misericordia di Dio prevalga sulla punizione. Non si tratta di un semplice scambio di parole, ma di un atto di fede che coinvolge l’altro, un’intercessione che guarda al bene degli altri.

Spesso diciamo che la preghiera è una "conversazione con Dio", ma quanti di noi vivono veramente questo dialogo? Abraamo è un esempio di cosa significhi davvero pregare dialogando (con Dio). Non si limita a chiedere salvezza per sé, ma per tutti. In questo gesto, si rivela una verità profonda sulla giustizia divina: Dio non agisce senza ascoltare, ma è pronto a rispondere a chi si fa carico del dolore degli altri. L’intercessione è il segno di una fede che diventa partecipazione attiva nella storia, riconoscendo il dolore dell’altro e diventando strumento di speranza.


Haftarah (2 Re 4,8-37)
Il miracolo della vita e della risurrezione

La figura della donna di Sunem, che accoglie il profeta Eliseo nella sua casa, ci richiama a un’altra verità: l’ospitalità porta con sé non solo la benedizione, ma anche il miracolo della vita che si rinnova. La donna di Sunem, che inizialmente non si aspettava nulla, riceve la promessa di un figlio (simile ad Abraamo), e in seguito, quando il bambino muore, sperimenta il miracolo della risurrezione (simile ad Abraamo, cfr. Eb. 11,19). Come per Sarah, la speranza sembra sfumare, ma Dio non lascia che il dolore prevalga. Il miracolo che accade in questa casa è il simbolo di una speranza che va oltre la morte, di una fede che non conosce il fallimento, perché in Dio ogni fine è solo l'inizio di una nuova vita. Il respiro di Dio soffia anche sulla morte, trasformandola in una nuova possibilità.


Besorah (Luca 17,28-37)
L'invito alla prontezza e alla speranza vigilante

Yeshua, nel Terzo Vangelo, ci ricorda che la salvezza non è mai scontata, e che la nostra fede dev'essere pronta a rispondere alla chiamata di Dio senza esitazione. I giorni del Figlio dell'Uomo saranno come quelli di Sodoma, quando la gente viveva nei suoi piaceri senza accorgersi del giudizio imminente. Il racconto di Lot e della sua fuga da Sodoma ci insegna a non voltarci indietro, a non rimanere attaccati a ciò che è effimero e destinato a essere distrutto (cfr. Mt. 6,19; Lc. 12,33), ma a rimanere vigilanti. La chiamata di Dio è sempre un invito a lasciare ciò che ci trattiene, ad essere pronti, pronti a credere che, anche nei momenti di crisi, la salvezza è vicina, e che Dio ha sempre una via d'uscita. La vera fede non è una fede statica, ma dinamica: è prontezza ad agire, a camminare verso ciò che ci è stato promesso, senza paura, con cuore aperto.

Conclusione

Il filo che unisce questi passi è la speranza che nasce dalla fede, che si esprime attraverso l'ospitalità, l’intercessione, e la capacità di riconoscere la presenza di Dio nei momenti di crisi. Abraamo, la donna di Sunem, e Lot sono tutti testimoni di una fede che non si arrende mai, che vede oltre le apparenze e crede nel miracolo, nella promessa e nella giustizia di Dio. La vera fede è quella che si prepara ad accogliere il divino, che non si arrende mai davanti all’impossibile, e che, pur nel dolore, sa che in Dio la morte non ha mai l'ultima parola. Se siamo pronti, come Abraamo e la donna di Sunem, a fare spazio a Dio nella nostra vita, se non temiamo di intercedere per gli altri e di sperare oltre ogni limite umano, allora possiamo vivere nella certezza che, anche nei momenti di buio, la luce di Dio ci guiderà sempre verso la salvezza.


Guarda la parashah del moreh (12/11/2022)


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