Introduzione
La parashah di questa settimana continua a narrare la figura di Giuseppe, concentrandosi su un aspetto fondamentale della sua vicenda: la sovranità divina. È Dio, infatti, che, nella Sua onnipotenza, chiama uomini dal cuore umile, pronti a servirLo con devozione. Giuseppe, da schiavo imprigionato, ascende alla seconda posizione di potere in Egitto, non solo salvando il popolo egiziano dalla carestia, ma assumendo un ruolo cruciale nella fondazione del popolo di Israele. La sua storia diventa così un esempio luminoso della provvidenza divina che opera attraverso l’umiltà e il servizio fedele.
Parashah (Gen. 41,1-13.16.25-36.38.40-44)
Giuseppe viene plasmato per un proposito più alto
Nei tre anni di prigionia, Giuseppe viene forgiato dalla mano di YHWH. La sua esperienza come sognatore e interprete di sogni lo prepara a diventare l’uomo predestinato non solo per decifrare i sogni del faraone — unico in tutto l’Egitto capace di farlo — ma anche per offrirgli consigli saggi e strategici su come affrontare gli eventi preannunciati nel sogno: dai sette anni di abbondanza, infatti, sarebbero seguiti sette anni di carestia, talmente devastante da far dimenticare la prosperità precedente (Gen. 41,1-13). Questo processo di formazione diventa un momento decisivo, in cui la saggezza divina si manifesta in Giuseppe, rendendolo l’interprete e il consigliere indispensabile per la salvezza del popolo egiziano.
La svolta
Nel racconto biblico, si segna un momento cruciale nella vita di Giuseppe, il quale viene convocato dal faraone per interpretare i suoi sogni. Tuttavia, in un gesto di grande umiltà, Giuseppe non si appropria del merito per l’interpretazione, ma attribuisce il tutto a Dio, riconoscendolo come la fonte di ogni risposta favorevole. In tal modo, Giuseppe si configura come un intermediario divino, piuttosto che come un protagonista autonomo.
Come si evince dal passo di Gen. 41,16:
Giuseppe rispose al faraone dicendo: “Non sono io, ma sarà Dio che darà al faraone una risposta favorevole”
Questo atteggiamento sottolinea la centralità della divinità nella vita e nell’operato di Giuseppe, il quale si presenta come un semplice strumento nelle mani di Dio.
Inoltre, Giuseppe suggerisce al faraone di nominare un uomo «intelligente e saggio» (v. 33) per gestire le risorse del paese, un amministratore che organizzi e metta da parte provviste durante gli anni di abbondanza, in vista di quelli di carestia (Gen. 41,25-36). Anche in questa circostanza, Giuseppe dimostra una discreta modestia, non considerandosi lui stesso il candidato ideale per tale incarico, ma piuttosto indicando una figura che possieda le qualità richieste per una simile responsabilità.
Elevazione a vice re d’Egitto
L’attitudine di Giuseppe appare estremamente saggia agli occhi del faraone, che lo sceglie come l’uomo designato per amministrare tutte le necessità del paese. Il faraone riconosce, infatti, che in Giuseppe dimora lo Spirito di Dio, un segno evidente di una saggezza che va oltre le capacità umane:
Potremmo forse trovare un uomo pari a questo, in cui sia lo Spirito di Dio? (Gen. 41,38)
La visione del faraone non è solo una constatazione intellettuale, ma un riconoscimento profondo del divino che guida Giuseppe.
La trasformazione di Giuseppe culmina con la sua elevazione a vice faraone d'Egitto. Gli viene conferita autorità suprema su tutto il paese, con l’unica eccezione del faraone stesso (Gen. 41,40-44). Come segno tangibile di tale autorità, il faraone gli dona il suo anello, lo veste con abiti di lino fine e gli mette al collo una collana d’oro (v. 42), simboli visibili di un potere che ora si estende su ogni aspetto della vita egiziana.
Tuttavia, la figura di Giuseppe ci invita anche a una riflessione più profonda sulla condizione umana davanti a Dio. Sebbene agli occhi degli uomini qualcuno possa apparire insignificante o inutile, davanti alla Santità di Dio ogni essere umano si riconosce per quello che è, simile a “panni sporchi” che necessitano di purificazione. Tuttavia, Dio non giudica secondo l’apparenza, ma guarda i cuori: cuori umili, pronti ad obbedire alla Sua volontà e a riporre in Lui piena fiducia. In questo senso, Giuseppe non solo agisce con saggezza, ma incarna una fiducia incondizionata nel piano divino.
Un altro elemento fondamentale è la sua attitudine disinteressata. Giuseppe non cerca mai il proprio vantaggio, ma pone sempre il bene comune come fine ultimo delle sue azioni. Anche quando si trova in prigione, riflette sull’importanza della fiducia in Dio, riconoscendo che ogni cosa dipende da Lui e non cercando vendetta o giustizia personale. La sua pazienza e umiltà gli permettono di rimanere fedele alla volontà del Signore, anche nelle circostanze più dure.
Questa stessa attitudine emerge anche nel suo incontro con i fratelli. Sebbene all’inizio sembri agire con durezza, accusandoli di essere spie e non lasciandosi subito riconoscere, in realtà Giuseppe li sta mettendo alla prova per scoprire se vi è stato un cambiamento sincero nei loro cuori. Quando infine si fa riconoscere, non li accusa mai apertamente, ma riconosce il piano divino dietro alla sua sofferenza e alla sua elevazione (Gen. 45,4-10). Giuseppe, infatti, comprende che ogni difficoltà vissuta era parte di un disegno più grande: non solo per salvare l'Egitto e i paesi circostanti dalla carestia, ma anche per compiere la riconciliazione della sua famiglia, che da lì a poco sarebbe diventata una grande nazione prospera.
La storia di Giuseppe ci insegna così che la saggezza, la fiducia in Dio e il disinteresse per il proprio guadagno personale possono trasformare anche le situazioni più dolorose in opportunità per realizzare il bene comune e adempiere al disegno divino.
Haftarah (Zac. 2,14—4,7)
Restaurazione del Tempio e nostra chiamata sacerdotale
Nel contesto del disordine che segna Babilonia a causa dell’idolatria del popolo, Dio desidera ristabilire l’ordine e la Sua gloria. Giosuè e Zorobabele, rispettivamente sommo sacerdote e re, sono scelti da Dio tramite il profeta Zaccaria per intraprendere una nuova fase di ricostruzione, incentrata sulla restaurazione del Tempio di Dio. I settant’anni di cattività erano finalmente terminati, e con essi iniziava una nuova era di speranza e di restaurazione.
Così come Giosuè è stato scelto dal Signore per ricoprire il ruolo di sommo sacerdote, anche noi, sebbene indegni, siamo stati scelti non per meriti propri, ma per la grazia di Dio. È il Signore stesso che ci ha purificati mediante il Suo sangue, rendendoci idonei a esercitare il ruolo di sacerdoti e re. Nel Messia Yeshua siamo stati spogliati dell’uomo vecchio e rivestiti dell’uomo nuovo, creato secondo la giustizia e la santità della verità (Ef. 4,22-24).
La visione del candelabro d’oro e dei due ulivi (Zac. 4,2-3), rappresenta simbolicamente Yeshua nelle Sue funzioni di Re e Sacerdote, e la Kehillah (la comunità di fede) come il Suo Tempio, il Suo Corpo. Come lampade piene di olio, siamo chiamati a essere luce in un mondo che giace nelle tenebre, a riflettere la luce divina che ci è stata donata. La ricostruzione del Tempio, quindi, non si limita alla restaurazione materiale, ma allude alla costruzione del vero Tempio di Dio attraverso l’opera redentrice di Yeshua, che prepara la strada per l’instaurazione del Suo Regno millenario.
Questa visione ci invita a comprendere che la missione di oggi è di cooperare con Dio nella Sua opera di restaurazione, vivendo come sacerdoti e re, diffondendo la luce del Messia e preparandoci al compimento del Suo Regno eterno.
Besorah (Giov. 20,22-28)
Soffio dello Spirito e nascita del tempio vivente
Yeshua, resuscitato dai morti e vittorioso sul peccato e sulla morte, si manifesta ai discepoli soffiando loro lo Spirito (Giov. 20,22). Questo soffio, un atto simbolico e potente, è il preludio di ciò che sarebbe accaduto successivamente durante la festa di Shavuot, quando l’effusione dello Spirito (At. 2,4) avrebbe avuto luogo. Tale evento segna la nascita della Kehillah, la comunità dei credenti, che diventa il vero Tempio di Dio: non un edificio costruito con pietre, ma un corpo vivo, formato da uomini e donne di fede che camminano secondo lo Spirito Santo per portare avanti l’opera di avanzamento del Regno di Dio.
Questa effusione dello Spirito Santo non solo rende possibile la vita di fede dei credenti, ma segna anche l’inizio della nuova era della Kehillah, che è il Tempio vivente del vivente Dio, dove la presenza divina dimora nei cuori dei discepoli. La Kehillah, come Corpo del Messia, è dunque chiamata a essere luce nel mondo, testimoniando il potere del Vangelo e promuovendo l’espansione del Regno di Dio sulla terra, attraverso la guida e la potenza dello Spirito Santo.
Conclusione
Dio è il Sovrano assoluto, il Signore che sceglie uomini e donne di fede disposti a servirLo secondo la Sua volontà. Egli guarda al nostro cuore e all’aspetto interiore, piuttosto che all’apparenza esteriore. È Dio stesso che ci purifica, togliendo le vesti dell’iniquità e rivestendoci di abiti di lino, simbolo di purità e giustizia. Questo processo di purificazione è un atto di grazia che avviene mediante la fede in Yeshua. Non importa da dove veniamo né dove ci troviamo, perché se riponiamo la nostra fede nel Signore, Egli ci solleverà da ogni prigione, sia materiale che spirituale, rispondendo alla Sua chiamata.
In virtù dello Spirito Santo, riceviamo la potenza e i carismi necessari per camminare nella volontà di Dio, per vivere nell’unità e nell’amore fraterno, e per essere, come il Messia Yeshua ci ha chiamato, «sale della terra e luce del mondo». Questa è la nostra missione: testimoniare la verità di Dio attraverso la nostra vita e il nostro servizio, portando la luce in un mondo che ha bisogno della Sua presenza e verità.
Guarda la parashah del moreh (24/12/2022)
Per approfondire questa parashah, si consiglia la lettura del Nuovissimo Commento alla Torah dedicato al Genesi.