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Parashat Nasò (Num. 4,21—7,89)

Messi a parte: il filo del nazireato
21 settembre 2025 di
Parashat Nasò (Num. 4,21—7,89)
Giusy Conforto
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Introduzione

Quando un popolo viene radunato, la prima urgenza non è soltanto contarsi o disporsi in ordine: è purificarsi. Abitare attorno alla Dimora di Dio esige un cuore e un campo puri. La santità non è un dettaglio decorativo della vita del credente; è l’atmosfera in cui la benedizione può posarsi senza essere respinta. In questo orizzonte prende forma un tema che attraversa le letture di oggi: essere «messi da parte» per YHWH — non per chiuderci, ma per appartenere, non per isolarci, ma per servire.


Parashah (Num. 5—6; Es. 19,6)

Santità dell’accampamento e segno del nazireato

Dopo la costituzione dell’esercito (Num. 1—4), la Torah introduce una sequenza precisa: purificazione del campo (Num. 5,1-4), salvaguardia della fedeltà coniugale (vv. 11-31), voto di nazireato (6,1-21), benedizione sacerdotale (6,22-27). Non è casuale:

Ordine → purezza → consacrazione → benedizione.

Il popolo che dimora attorno al Santuario deve riflettere il carattere del Dio che vi abita:

Mi sarete un regno di sacerdoti, una nazione santa (Es. 19,6)

La purificazione tocca ciò che contamina in profondità: la lebbra, le perdite, il contatto con i morti. YHWH mostra che la vita con Lui non convive con ciò che consuma, corrompe e spegne. L’accampamento non è solo un luogo geografico; è il nostro spazio di vita quotidiana: relazioni, pensieri, parole, abitudini. Se vogliamo che la Sua Presenza riposi in mezzo a noi, c’è un «mettere fuori» tutto ciò che, anche sottilmente, profana l’atmosfera del cuore.

In questa cornice si inserisce il rito della gelosia (Num. 5,11-31): tema difficile, ma teologicamente trasparente (guarda la lezione dettagliata del fratello Daniele). Israele è spesso raffigurato come sposa; l’alleanza è un matrimonio. La fedeltà coniugale, dunque, non è solo questione privata: custodisce l’integrità dell’intero popolo. Quando il vincolo nuziale è onorato, l’accampamento respira verità; quando è ferito, si incrina la comunione. La Torah educa una coscienza: l’amore fedele non è sentimento intermittente, è responsabilità sacra.

Subito dopo, il voto di nazireato (6,1-21) dà carne a questa chiamata. «Nazir» significa “separato, consacrato”: un uomo o una donna si mettono da parte per YHWH per un tempo determinato (talvolta, come per Sansone, per tutta la vita). I segni sono tre:

  1. astensione dal vino e da ciò che proviene dalla vite,
  2. nessun rasoio sul capo,
  3. nessun contatto con i morti.

L’astensione educa la gioia che non dipende dagli stimoli; i capelli non tagliati dichiarano visibilmente un’appartenenza; l’evitare il contatto con la morte testimonia che la vita di Dio è la nostra misura.

Tutto culmina nella Birkat Kohanim (6,24-26): la benedizione sacerdotale non è un talismano, è il sigillo di un cammino. L’ordine non salva, ma apre spazio; la purezza non giustifica, ma dispone; la consacrazione non meritata, ma risponde. E la benedizione scende dove il cuore, liberato dai compromessi, è pronto a custodirla.

Pastoralmente, qui siamo interpellati con chiarezza: qual è oggi il «contatto con il morto» che ci insinua torpore spirituale? Quali «piccoli sorsi» — non solo di vino, ma di abitudini e contenuti — anestetizzano il desiderio di Dio? E quale segno visibile parla, nella nostra vita, della nostra appartenenza a YHWH? Non c’è santità senza segni, e non ci sono segni senza scelte quotidiane.


Haftarah (Giudici 13,2-25)

Sansone: vita dalla sterilità, forza dalla consacrazione

Israele, per la propria infedeltà, è oppressa dai Filistei. Dentro questa sterilità storica, una sterilità personale: la moglie di Manoah non può avere figli. È proprio lì che la grazia esplode. L’angelo di YHWH annuncia un bambino consacrato «nazireo a Dio» fin dal grembo: niente vino, nessuna impurità, rasoio lontano dal capo. La vita nasce dove non c’era vita; e la chiamata alla separazione precede perfino la nascita.

Sansone diventa così parabola vivente. La sua forza non è primariamente muscolare; è sacramentale, nel senso biblico: rende visibile una realtà invisibile — che la potenza di Dio si manifesta in chi Gli appartiene. Certo, la storia di Sansone è complessa, segnata da contraddizioni. Ma anche questo è istruttivo: il carisma non sostituisce il carattere; la chiamata non annulla la responsabilità. Il nazireato non è un amuleto che immunizza dalle cadute; è una strada che chiede ascolto, obbedienza, vigilanza.

La madre stessa partecipa alla consacrazione: «non bere vino né bevanda inebriante e non mangiare nulla d’impuro». È come se YHWH dicesse: la santità non è mai solitaria; è sempre condivisa, generativa, comunitaria. Una casa che accoglie la consacrazione diventa grembo di liberazione per molti. Pastoralmente, questo ci invita a domandarci: le nostre scelte creano «atmosfera di nazireato» nelle nostre case, nelle nostre comunità? Disciplinano desideri, tempi, parole, in modo che la vita promessa possa crescere?


Besorah (Luca 1,11-20)

Zaccaria ed Elisabetta: il silenzio che educa la fede

Anche nelle Scritture Apostoliche la grazia visita una casa segnata dalla sterilità: Zaccaria ed Elisabetta. L’angelo annuncia la nascita di Giovanni, che porterà tratti riconoscibili del nazireato: «non berrà vino né bevande forti» e, soprattutto, «sarà ripieno di Spirito Santo fin dal grembo». La separazione qui tocca il cuore della missione: preparare un popolo ben disposto, ricondurre i cuori, aprire la strada a Yeshua.

Zaccaria, sacerdote, uomo pio, vacilla: la sproporzione tra promessa e circostanze gli fa tremare la voce — e la perde. Il suo mutismo non è una vendetta del cielo, è una terapia dell’anima. Il silenzio diventa grembo di parola nuova; il dubbio, disciplinato, si apre alla lode. Quando il bambino nasce e il nome «Yochanan» (Giovanni) è obbedito, la lingua si scioglie e la benedizione irrompe.

La scena è luminosa e concreta: quante volte l’incredulità — non quella teorica, ma quella quotidiana, fatta di sospiri rassegnati — ci sigilla le labbra nella preghiera e nella lode. E quante volte YHWH, con una disciplina severa ma buona, ci conduce in un «silenzio educativo» per restituirci parole più vere. La separazione evangelica non è fuga dal mondo, è libertà dai rumori che impediscono di udire la promessa; non è tristezza, è capacità di gioia sobria; non è orgoglio, è mansuetudine operosa che prepara la Via al Re.


Conclusione

«Siate santi, perché Io sono santo» (Lev. 19,2) non è un ideale irraggiungibile; è il respiro normale di chi vive alla Presenza di Dio. La Torah ci mostra la via: mettere in ordine, purificare, custodire la fedeltà, consacrarsi. La Haftarah ci ricorda che la consacrazione fa fiorire l’arido e libera gli oppressi. La Besorah ci insegna che la separazione si compie nello Spirito, educa la fede e prepara la venuta di Yeshua.

Per noi, oggi, questo «nazireato» non è un codice rituale, ma una postura interiore che si traduce in scelte visibili:

  • vigilare sui sensi: ciò che guardiamo, ascoltiamo, consumiamo;
  • disciplinare i desideri: non tutto ciò che è lecito fare edifica;
  • onorare le alleanze: nel matrimonio, nelle amicizie, nella comunità;
  • abitare la Parola e la preghiera: ogni giorno, non a sprazzi;
  • camminare nello Spirito: chiedere che la gioia non venga da stimoli, ma dalla Presenza;
  • respingere le contaminazioni sottili: «un po’ di lievito fa lievitare tutta la pasta».

Siamo stati riscattati nel sangue di Yeshua, rinati dallo Spirito, chiamati a essere «primizia santa» nel mondo. La benedizione sacerdotale non è lontana: riposa su chi, lasciandosi mettere da parte, si lascia anche inviare. Che YHWH faccia risplendere il Suo volto su di noi, e che la nostra vita — sobria, fedele, gioiosa — diventi un segno leggibile della Sua santità tra gli uomini.

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