Parashah (Genesi 28,12)
Introduzione
La lotta tra Giacobbe ed Esaù ha inizio nel grembo materno, come un conflitto prefigurato che segna il destino dei due fratelli. Questo conflitto non si conclude con il semplice incontro tra due uomini, ma con una battaglia che attraversa secoli di storia, culminando nella trasformazione di Giacobbe, che diventerà Israele.
Nel grembo materno egli prese il fratello per il calcagno e nel suo vigore lottò con Dio
La Scrittura, nel suddetto passaggio di Os. 12,4, ci ricorda come Giacobbe, ancora nel grembo materno, lottò con il suo fratello trattenendolo per il calcagno, e successivamente, nel suo vigore, lottò con Dio. Un’idea potente emerge: la lotta che inizia nel ventre materno si estende per tutta la vita, e solo nel confronto con Dio Giacobbe trova la sua vera identità.
Nel cammino che Giacobbe percorre, si intrecciano inganno e redenzione. Sebbene egli si appropriasse della benedizione di Abraamo con l’inganno, Dio aveva già progettato per lui un destino differente. Nonostante la sua fuga dalla casa paterna e la solitudine che ne derivava, Dio lo chiamò con un sogno profetico, dando inizio a un lungo e travagliato processo di trasformazione. La lotta tra Giacobbe e il suo destino diventa simbolo di ogni anima che cerca la propria redenzione. L’amore che Giacobbe prova per Rachele, la fedeltà che lo guida, e l’inganno subito dallo zio Labano diventano tappe significative in un percorso di purificazione che culminerà nella nascita delle tribù d'Israele.
Giacobbe lotta con YHWH
Quando Giacobbe ritorna nella sua terra, l’ombra di Esaù, suo fratello, incombe su di lui come un destino ineluttabile. La paura che Giacobbe prova, pur non essendo indice di una debolezza di fede, testimonia la capacità di riconoscere la propria vulnerabilità di fronte a un nemico che sembra invincibile. Esaù, con i suoi 400 uomini, rappresenta la minaccia imminente che spinge Giacobbe a riflettere sul suo passato, sulle sue scelte e sulla sua condizione. Ma Giacobbe, pur temendo il confronto, non si arrende alla paura. In questa condizione di vulnerabilità, egli si volge a Dio, ricordando la promessa che YHWH gli aveva fatto, come a suo padre Isacco e a suo nonno Abraamo.
O Dio di Abraamo mio padre, Dio di mio padre Isacco! O YHWH, che mi dicesti: "Torna al tuo paese, dai tuoi parenti e ti farò del bene", io sono troppo piccolo per essere degno di tutta la benevolenza che hai usata e di tutta la fedeltà che hai dimostrata al tuo servo; perché quando passai questo Giordano avevo solo il mio bastone, e ora ho due schiere. Liberami, ti prego, dalle mani di mio fratello, dalle mani di Esaù, perché io ho paura di lui e temo che venga e mi assalga, non risparmiando né madre né figli. Tu dicesti: "Certo, Io ti farò del bene e farò diventare la tua discendenza come la sabbia del mare, tanto numerosa che non la si può contare.
La preghiera che egli rivolge a Dio (Gen. 32,9-12) non è solo una supplica di salvezza, ma un atto di fede incolore e disarmato, in cui il patriarca si riconosce come dipendente dall’intervento divino.
In questo contesto, Giacobbe non si limita a cercare il soccorso divino, ma agisce con saggezza, cercando di placare l’ira di Esaù con una strategia di riconciliazione. È interessante notare che, mentre prepara il terreno per un possibile incontro, la sua vera battaglia non avverrà con Esaù, ma con un uomo misterioso, che la Scrittura ci rivela essere YHWH stesso (Gen. 32,25-30). Questa lotta notturna diventa una metafora potente: ogni confronto con la nostra umanità, con i nostri limiti, e con le nostre paure, è una lotta con Dio, dove la nostra vera identità viene rivelata non nella vittoria contro l’altro, ma nella resa alla Sua volontà.
Alla fine, Giacobbe emerge trasformato, con un nuovo nome: Israele. Il nome non è un semplice cambio di identità, ma un riconoscimento della sua lotta e del suo bisogno di dipendere completamente da Dio. Il suo nuovo nome, Israele, significa «colui che lotta con Dio» (Gen. 32,29), ma anche «colui che prevale con Dio». Questa trasformazione di Giacobbe in Israele ci insegna che ogni grande cambiamento nella vita umana avviene attraverso il riconoscimento della nostra fragilità, la nostra lotta interiore, e la nostra disponibilità ad accogliere l’intervento di Dio nella nostra vita.
Haftarah (Osea 12,13—14,10)
Il ravvedimento e la speranza in Osea
Nel libro del profeta Osea, Israele è chiamato al ravvedimento, a tornare a YHWH, dopo aver scelto di fidarsi degli idoli e dei popoli stranieri (12,2-3). Osea descrive una nazione che ha tradito il suo Dio per seguire le vie di Baal, eppure, attraverso la Sua Parola, il Signore invita Israele a riconoscere che la loro unica speranza è in Lui (14,1-3). Nella haftarah, il profeta denuncia l'idolatria e la fiducia nell'Assiria e nell'Egitto, ma afferma anche che, se Israele si pentirà, YHWH lo guarirà e lo rinnovà.
In questo contesto, il messaggio di Osea non è solo di condanna, ma anche di speranza. La guarigione che YHWH promette è un atto divino che si compie attraverso il ravvedimento e l’obbedienza. La promessa di rinnovamento che Dio offre è espressa in termini di amore e di protezione, in cui Dio stesso diventa il rifugio d'Israele. Questa verità è una chiamata per ogni fedele: quando ci allontaniamo da Dio, la Sua grazia e la Sua misericordia sono sempre pronte a restaurarci, ma è necessario un cuore che si umilia e si rivolge a Lui con sincerità.
Besorah (Giovanni 1,41-51)
La chiamata dei talmidim
La porzione apostolica ci presenta la chiamata dei primi talmidim, tra cui Simone, che Yeshua chiama Cefa, un nome che significa «roccia». La scelta di questo nome non è casuale. Yeshua riconosce che, nonostante la natura impulsiva e incostante di Simone, lui sarebbe stato trasformato in una figura solida, stabile, un punto di riferimento per la Kehillah. Così come Giacobbe, nel suo incontro con YHWH, fu trasformato in Israele, anche Simone, attraverso il suo incontro con Yeshua, sarà trasformato nella roccia su cui la Kehillah si costruirà (Mt. 16,18).
Il dialogo con Natanaele è un altro momento illuminante di questa chiamata. Natanaele, impressionato dalla conoscenza soprannaturale di Yeshua, riconosce in Lui il Messia, il Figlio di Dio, il Re di Israele (Giov. 1,49). Ma le parole di Yeshua (v. 51), in cui annuncia che vedrà gli angeli di Dio salire e scendere su di Lui, rivelano una verità profonda: Yeshua è il collegamento tra cielo e terra, il mediatore perfetto tra Dio e gli uomini. Come Giacobbe aveva visto una scala tra cielo e terra (Gen. 28,12), Yeshua è la realizzazione di quella visione. In Lui, il cielo e la terra si incontrano, e attraverso di Lui, la salvezza di Dio diventa accessibile a tutta l’umanità.
Conclusione
La storia di Giacobbe ci insegna che la vita di fede è una lotta, una lotta con noi stessi, con il nostro peccato, e con le circostanze che ci appaiono insormontabili. Ma, come Giacobbe, siamo chiamati a riconoscere che la nostra trasformazione non dipende dalle nostre forze, ma dalla grazia di Dio. In questo cammino, ogni caduta, ogni difficoltà, diventa un’opportunità per arrenderci alla sovranità di YHWH e sperimentare la Sua fedeltà. Come ci insegna la Bibbia, la nostra fede non sarà esente da difficoltà, ma la mano potente di Dio ci sosterrà fino al traguardo (Is. 41,10).
Il Messia Yeshua è il mediatore definitivo tra cielo e terra. La Sua venuta, la Sua vita e la Sua morte e risurrezione ci mostrano che, attraverso di Lui, ogni lotta, ogni sofferenza, può essere redenta. In Lui, vediamo la realizzazione della visione di Giacobbe: il cielo e la terra si incontrano, e attraverso la Sua opera, ogni talmid può essere trasformato e rinnovato dallo Spirito Santo, che ci guida verso la pienezza della vita in Dio.
Guarda la parashah del moreh (03/12/2022)
Per approfondire questa parashah, si consiglia la lettura del Nuovissimo Commento alla Torah dedicato al Genesi.