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Divinità di Yeshua senza Trinità?

Perché la cristologia, se presa sul serio, conduce inevitabilmente alla dottrina trinitaria
28 settembre 2025 di
Divinità di Yeshua senza Trinità?
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

Possiamo parlare di "acqua" senza parlare di H₂O? Certo, possiamo omettere la formula chimica della molecola e chiamarla come ci pare, tuttavia la natura dell'acqua resterà sempre e solo H₂O e non muta: 2 atomi di idrogeno e 1 di ossigeno = 3 atomi in totale.

Capita spesso d’incontrare chi, pur volendo onorare la grandezza di Yeshua, rifiuta la Trinità: «posso credere nella Sua divinità senza imbarcarmi in una dottrina complicata». L’idea è seducente: tenere l’oro, scartare l’ornamento. Ma la domanda è se la Trinità sia davvero un’aggiunta ornamentale o piuttosto il nome, storicamente maturato, della trama che scaturisce quando si prende la cristologia biblica in tutta la sua portata. Se la Scrittura ci consegna contemporaneamente il monoteismo rigoroso d’Israele (Deut. 6,4), l’adorazione e i titoli divini attribuiti a Yeshua (Giov, 1,1; 20,28; Flp. 2,6-11; Col. 1,15-20; Eb. 1,3-10) e la personale azione divina dello Spirito (At. 5,3-4; 2 Cor. 3,17; Giov. 14–16), allora il problema non è «aggiungere» qualcosa alla Bibbia, ma parlare rettamente di ciò che la Bibbia già ci costringe a dire. In questo senso, come notano Alister McGrath, Wolfhart Pannenberg e — da prospettive diverse — Paul Tillich, la Trinità è la “grammatica” che impedisce di balbettare quando diciamo «Dio è uno» e, nello stesso respiro, confessiamo Yeshua come «Signore e Dio» (Giov. 20,28).

Mostrerò perché la pretesa di una «divinità di Yeshua senza Trinità» non regge né filologicamente né logicamente, e perché, una volta ammessa la cristologia alta delle Scritture Apostoliche, si è già entrati — volenti o nolenti — nel territorio trinitario.


Quando la cristologia “spinge” la dottrina di Dio

Le Scritture non presentano un "Dio in generale" cui, più tardi, si appiccica un’etichetta trinitaria. Ci presentano, piuttosto, il Dio unico d’Israele che si fa conoscere nel Figlio e agisce nello Spirito. Nel prologo di Giovanni, il Logos «era presso Dio ed era Dio» (Giov. 1,1) e tuttavia viene distinto da «Dio» in senso personale non sostanziale: «nessuno ha mai visto Dio; l’Unigenito, che è nel seno del Padre, è quello che lo ha fatto conoscere» (Giov. 1,18). La distinzione non è teatrale: Yeshua prega il Padre (Giov. 17), obbedisce al Padre (6,38), viene unto dallo Spirito (Mc. 1,10-11) e promette ai discepoli «un altro Consolatore» (Giov. 14,16). Qui non c’è un solo “Io” che cambia maschera: ci sono relazioni personali reali nella vita stessa di Dio.

Pannenberg ha insistito che Dio si definisce nella storia della risurrezione di Yeshua: non un dio astratto, ma il Dio che si dà a conoscere nel Figlio per mezzo dello Spirito. Se la cristologia è rivelazione di Dio e non semplice epifania di un intermediario, allora la dottrina di Dio non può restare monolitica senza fratture: deve articolarsi come unità di essenza e distinzione di persone. McGrath, in chiave più didattica, osserva che la Trinità è la cornice interpretativa che preserva i tre dati biblici insieme: l’unico Dio (Deut. 6,4), la deità del Figlio (Giov. 1,1; Col. 2,9) e la personalità/operatività divina dello Spirito (At. 5,3-4; Giov. 16,13). Senza questa cornice, uno dei tre cade: o non c’è più un Dio solo, o Yeshua diventa meno di Dio, o lo Spirito scivola in forza impersonale.


La filologia che non lascia scappatoie

Sul piano dei testi, le scelte linguistiche degli autori biblici non sono casuali. Giovanni non dice che il Logos «era come Dio», ma che «era Dio» — con un uso del termine theos qualitativo che segnala condivisione della natura divina, non semplice attributo onorifico (Giov. 1,1). Tommaso non proclama a Yeshua un titolo devoto, ma professa «Mio Signore [Adonay-YHWH] e mio Dio [Elohim]!» (Giov. 20,28), un’adorazione che in Israele appartiene soltanto a YHWH (Deut. 6,13). L’autore agli Ebrei applica al Figlio parole del Salmo: «Il tuo Trono, o Dio, dura di secolo in secolo» (Eb. 1,8; Sal. 45,6-7), e gli attribuisce il linguaggio creatore del Salmo 102 (Eb. 1,10-12). Paolo, nell’inno di Filippesi, parla di «forma di Dio» e di un abbassamento reale, non della promozione di un essere angelico (Flp. 2,6-11). Al contempo, lo Spirito «parla», «guida», «intercede» (Giov. 16,13; Rom. 8,26-27), e «mentire allo Spirito» equivale a «mentire a Dio» (At. 5,3-4).

Un secondo dettaglio filologico è decisivo: il riuso neotestamentario dei testi della LXX su YHWH applicati a Yeshua (vedi il corso KYRIOS. Il Messia Divino). «Preparate nel deserto la via di YHWH» (Is. 40,3) diventa, nel ministero del Battista, la preparazione della via di Yeshua (Mt. 3,3); «chiunque avrà invocato il Nome di YHWH sarà salvato» (Gl. 2,32) diventa «chiunque avrà invocato il nome del Kyrios» nel senso di Yeshua (Rom. 10,13). La semantica del titolo Kyrios, nel contesto della LXX, non lascia alibi: quando le Scritture Apostoliche chiamano Yeshua «Kyrios» in contesti cultuali e soteriologici, sta mettendo Yeshua dentro il Nome Divino.

Questi dati non si conciliano con un “gesuismo” monoteista che faccia di Yeshua un semidio o una creatura eccelsa. Filologicamente, o si attenua il senso delle parole, o si riconosce che la cristologia alta impone una dottrina di Dio capace di contenerla senza esplodere. Quella dottrina, storicamente, si è chiamata «Trinità».


La logica della fede: monoteismo, distinzione, consustanzialità

Se confessiamo con Israele un solo Dio (Deut. 6,4) e confessiamo con la Kehillah che Yeshua è Dio (Giov. 1,1; Col. 2,9), senza confonderlo con il Padre che Egli prega (Giov. 17), abbiamo tre opzioni: o due dèi (impossibile), o una sola persona che recita ruoli diversi (smentito dalla simultaneità del battesimo: Figlio nel fiume, Spirito che scende, voce del Padre — Mc. 1,10-11), oppure una sola essenza condivisa da persone realmente distinte. Tillich, pur con linguaggio filosofico, intravedeva qui delle «distinzioni nella vita di Dio» correlative alla rivelazione: il Dio che fonda (Padre), il Dio che si manifesta come Logos (Figlio), il Dio che attualizza nell’esistenza dei credenti (Spirito). Autori evangelici come Colin Gunton e Robert Letham hanno mostrato come questa articolazione non sia un lusso speculativo ma la condizione di coerenza del Vangelo: solo un Figlio veramente Dio può rivelare Dio senza residui, e solo uno Spirito veramente Dio può unire realmente a Dio ciò che Yeshua ha compiuto (Giov. 1,18; Tt. 3,4-6).

La stessa pratica della Kehillah lo presuppone. L’adorazione a Yeshua nei Vangeli (Mt. 28,17) sarebbe idolatrica se Yeshua non fosse consustanziale al Padre. La formula battesimale «nel nome [singolare] del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt. 28,19) non permette un monoteismo “a due voci” con un’energia anonima: è un unico Nome che include tre ipostasi. Le benedizioni apostoliche invocano, senza imbarazzo, la grazia del Figlio, l’amore di Dio (Padre) e la comunione dello Spirito (2 Cor. 13,13). Non è poesia: è teologia in atto.


Perché la «divinità senza Trinità» si sbriciola nella prassi e nell’esegesi

Le posizioni che tentano di tenere insieme «Yeshua è divino» e «non esiste la Trinità» finiscono, alla prova dei testi, per ridurre qualcosa di essenziale. Il modalismo trasforma la rivelazione in teatro: se il Padre e il Figlio sono la stessa persona, Yeshua prega Sé stesso (Giov. 17) e la voce al Giordano è un monologo travestito da pluralità (Mc. 1,10-11). L’adozionismo e l’arianesimo salvano il monoteismo al prezzo della salvezza: una creatura, per quanto eccelsa, non può essere oggetto dell’adorazione dovuta a Dio solo (Deut. 6,13), né può sostenere «tutte le cose» in essere (Col. 1,17). Il binitarismo elimina lo Spirito come persona divina, ma la Scrittura gli attribuisce parlare, guidare, intercedere e santificare (Giov. 16,13; Rom. 8,26-27; 2 Tess. 2,13).

Sul piano ermeneutico, la “teologia fai da sé” suona come chi pretende un triangolo con due lati: si adottano frasi bibliche potenti («Yeshua è Dio») ma si rifiuta la forma dottrinale che consente a quelle frasi di restare vere insieme alle altre affermazioni bibliche («Dio è uno», «Yeshua non è il Padre», «lo Spirito guida e parla»). Vanhoozer parlerebbe qui di “performare” la Scrittura con una drammaturgia scorretta: si recitano le battute giuste, ma si sbaglia copione e si contraddicono le scene.


L’unità del disegno salvifico come sigillo trinitario

La soteriologia biblica è il “luogo di prova” della dottrina di Dio. Il Padre manda il Figlio (Giov. 3,17); il Figlio obbedisce fino alla croce e viene esaltato (Flp. 2,8-11); lo Spirito applica e sigilla l’opera nel credente (Ef. 1,13-14; Tt. 3,5-6). Non sono fasi di un unico attore: sono azioni di persone distinte in perfetta unità di volontà e potenza. Fred Sanders ha mostrato come l’evangelo stesso, letto nella sua economia, sia «a forma trinitaria»: quando annunciamo Yeshua crocifisso e risorto, stiamo già proclamando il Padre che dona il Figlio e lo Spirito che unisce a Yeshua i credenti (Rom. 8,9-11). J.I. Packer legava qui teologia e pietà: la preghiera cristiana, obbedendo al modello biblico, va al Padre, per il Figlio, nello Spirito (Ef. 2,18). Se si elimina la Trinità, si dev’essere coerenti e si deve riscrivere la preghiera, il culto, il battesimo e la benedizione; e a quel punto non è più il cristianesimo biblico.


Conclusione

Se davvero prendo sul serio il modo in cui la Bibbia parla di YHWH, di Yeshua e dello Spirito, non posso onestamente dire: «mi tengo la deità di Yeshua ma scarto la Trinità». Non perché ami i sistemi, ma perché amo la coerenza dell’evangelo. La Trinità non è un cappello filosofico messo su un Messia luminoso: è il nome della coerenza tra il monoteismo del Tanakh (Deut. 6,4), l’adorazione offerta a Yeshua (Mt. 28,17; Giov. 20,28) e la personale azione dello Spirito (Giov. 16,13; At. 5,3-4). Senza questa coerenza, o mi ritrovo con due dèi, o con un Messia dimezzato, o con uno Spirito evaporato in energia poetica.

Apologeticamente, dire che Yeshua è «veramente Dio» e poi rifiutare la Trinità equivale a dichiarare che l’acqua è bagnata ma non è H₂O: un’affermazione ad effetto che non regge all’analisi. Pastoralmente, la Trinità non complica la fede: la protegge. Protegge l’unicità di Dio, l’unicità del Salvatore e la realtà della comunione che lo Spirito opera. E, per quanto mi riguarda, non potrei predicare o pregare con integrità se non sapessi di rivolgermi al Padre, per mezzo (e nel nome) del Figlio, nello Spirito. È questa “grammatica” a impedirmi di dire troppo poco di Dio quando confesso Yeshua, e a impedirmi di dire troppo di Yeshua in modo da tradire il Dio uno. La cristologia, quando è biblica, non chiede il permesso alla Trinità: la esige.

Il solito cliche: la "Trinità" è invenzione dei concili
I concili ecumenici non hanno «inventato» la Trinità. Hanno discusso — con strumenti concettuali del loro tempo — il vocabolario più adatto per formulare in modo esplicito ciò che la Bibbia implicava già: un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo. È vero che la parola «Trinità» non compare mai nella Bibbia, come non compare mai la parola ateismo;(eppure la Bibbia ne esprime il principio, Sal. 10,4; 14,1; 53,1), ma il principio trinitario è presente nella rete dei testi e delle pratiche: il battesimo «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt. 28,19), la benedizione tripartita (2 Cor. 13,13), l’azione congiunta nelle opere proprie di Dio (creazione, redenzione, santificazione). I concili hanno dato alla Kehillah una lingua più precisa per non dire né troppo (due dèi, tre dèi) né troppo poco (un monologo divino senza Padre e Figlio reali).

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