Introduzione
Nella Bibbia la metafora delle «grandi acque» (Cant. 8,7) indica potenti ostacoli, ma nega che possano spegnere l’amore. Come canta il Cantico dei Cantici,
le grandi acque non possono spegnere l’amore, né i fiumi travolgerlo.
Questa immagine poetica illumina il nostro tema: nessuna interpretazione dottrinale, per quanto severa, potrà domare il dono di YHWH. Anzi, taluni sistemi dottrinali sono diventati essi stessi «grandi acque» tra i credenti, erigendo barriere là dove il Messia invece unisce.
In questo breve articolo esaminiamo criticamente la visione condizionata della salvezza – in particolare in alcune forme di pentecostalismo e di dispensazionalismo – e riaffermiamo il principio che la salvezza è un dono gratuito di Dio.
La metafora delle “grandi acque” e l’unità dei credenti
La Bibbia usa il Cantico dei Cantici 8,7 per descrivere l’invincibilità dell’amore: qualsiasi forza esterna («fiumi impetuosi», «acque impetuose») non può annientarlo. Applicando il simbolo, le dottrine contrapposte non devono spegnere l’amore reciproco tra i credenti. Purtroppo, però, alcune interpretazioni letterali delle Scritture creano divisioni: emergono una sorta di “fronzoli dottrinali” che separano anziché unire. L’orientamento vero della rivelazione di Dio è la misericordia e l’amore, non il giudizio legale: la parola ultima di Dio verso gli esseri umani non è di severità e giudizio ma di amore e misericordia. In altre parole, anche quando sorgono differenze dottrinali (stili di culto, pratiche ecclesiali, interpretazioni bibliche), esse non devono trasformarsi in muri invalicabili.
Proprio come il Cantico celebra la perennità dell’amore, anche la letteratura cristiana sottolinea che tutto – creazione e redenzione – è fondato nella libertà misericordiosa di Dio.
La salvezza condizionata: caratteristiche e problemi
Tuttavia, in alcune correnti cristiane la salvezza viene esposta come risultato di una performance normativa. Per “visione condizionata” intendo dottrine che collegano la salvezza all’osservanza di norme, dogmi o esperienze specifiche. Ne sono esempi tipici insegnamenti pentecostali come la necessità del battesimo nello Spirito Santo con segno delle lingue, o pratiche settarie come l’osservanza rigorosa di rituali. Un altro caso è dato da certe frange dispensazionaliste che insistono su precetti antichi (vincoli dietetici o sabbatistici) o su una categoria di “grazia limitata” riservata a gruppi eletti. In pratica, queste interpretazioni suggeriscono che la giustizia umana e l’adesione a norme possano in qualche modo contribuire al merito della salvezza.
Critiche principali:
- Divisione tra eletti. Alcuni pentecostali creano di fatto una “Chiesa a due livelli”, ritenendo che i credenti battezzati nello Spirito e che parlano in lingue godano di una speciale grazia rispetto agli altri. Ciò genera un’élite spirituale e allontana dalla fede molti buoni cristiani che non hanno vissuto quell’esperienza esteriore. Cosa dire, allora, del famoso ladrone nella croce che non ha sperimentato né il battesimo in acqua né il battesimo nello Spirito Santo, ma sia «nato di nuovo» negli ultimi istanti della sua vita, tanto da morire con la certezza della salvezza nel Messia che era accanto a lui?
- Mercato della fede. Proliferano “etichette di salvezza” (chi parla in lingue, chi osserva certe leggi o compie particolari riti è “davvero salvato”) che richiamano una salvezza su misura. Di certo, in sezioni del dispensazionalismo storico, l’accento sui piani divini (dispensazioni) può apparire come uno schema che vincola la fede a regole temporali.
Questi dogmi condizionali si pongono come ostacoli dottrinali che minacciano l’armonia tra i credenti in Yeshua. La Bibbia stessa ammonisce contro ogni atteggiamento legalista: Paolo scrive chiaramente che «l’uomo non è giustificato per le opere della Torah, ma per la fede nel Messia Yeshua». E ancora, «se la salvezza è per grazia, allora non è più per opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia» (Rom. 11,6). La teologia autentica deve riconoscere la totalità del peccato umano: come ricorda l’antica testimonianza scritturale, nessuno – prima del Messia – ha soddisfatto la giustizia divina (Rom. 3,10-12; Gal. 2,16). Di conseguenza la salvezza può venire solo per iniziativa di Dio.
Il caso del movimento pentecostale
Nel pentecostalesimo classico (cioè quello moderno), nato dall’avvento dello Spirito Santo ad Azusa Street nel 1906, si è diffusa la dottrina del battesimo del Signore come evento successivo alla nuova nascita. In molte comunità si insegna che questo battesimo è accompagnato dall’evidenza mistica del parlare in lingue. Ne consegue una distinzione tra «credenti normali» e «credenti pentecostali», quasi due classi diverse. The Gospel Coalition osserva con preoccupazione che questo crea «un cristianesimo a due livelli» dove i battezzati nello Spirito, e nello specifico "chi parla in lingue", sono considerati spiritualmente superiori. Tale impostazione richiama da lontano le lotte di fazione menzionate da Paolo in 1 Corinzi, laddove il Vangelo diventa l’alibi di gerarchie interne.
In altre parole, trasformare un’esperienza spirituale in metrica di salvezza mina la gratuità divina. Basta chiedersi: Yeshua vuole, per riscattare tutti, che la fede di alcuni dipenda dal possedere un charisma particolare? La Scrittura non lo direbbe, anzi, non lo dice! Al contrario, essa indica la fede come condizione sufficiente (Giov. 3,16: «chiunque crede in lui avrà vita eterna») e lo Spirito come dono per tutti i battezzati (At. 2,38). In ambito pentecostale alcuni tentano di difendere la gratuità, ma spesso contemporaneamente enfatizzano che l’esperienza pentecostale sia segno della salvezza. Questa ambivalenza crea confusione: molti fedeli vivono nell’incubo di dover “dimostrare” la propria salvezza con esperienze soprannaturali, ignari che anche l’esperienza più potente non esonera dalla fatica cristiana quotidiana.
Non c’è nulla di necessario nelle Scritture che leghi la salvezza al parlare in lingue o a una seconda effusione solo per alcuni. Anzi, enfatizzare eventi straordinari rischia di distrarre dall’essenziale, rischia di soffermarsi sull'inutile moscerino e tralasciare il più importante cammello (Mt. 23,24): Yeshua e la croce. Dio agisce mediando la Sua salvezza attraverso il messaggio evangelico, la Parola, non tramite esperienze eccezionali. Così anche un credente “privo” di carismi particolari è pienamente membro del Corpo del Messia, non di serie B.
La prospettiva dispensazionalista
Il dispensazionalismo classico (Scofield, Darby, riformatori dell’America evangelica) insiste su una divisione storica tra Israele e Kehillah e in taluni passi sulla diversità delle promesse divine. Spesso ne è emersa l’idea che in età antiche la salvezza dipendesse dalla legge mosaica, mentre oggi dipende da Yeshua. In tal senso, qualcuno scorge «due modi di salvezza»: uno secondo la legge e uno secondo la grazia. Tuttavia, gli studiosi dispensazionalisti stessi confermano che in realtà la dottrina ufficiale non ha mai predicato salvezza per opere in nessuna epoca .Sul versante cattolico e protestante si ricorda invece che dall’inizio alla fine Dio salva sempre per grazia mediante la fede.
Più che il cuore evangelico, gli insegnamenti dispensazionalisti rischiano di creare confusione sulla natura universale della grazia. Se, per esempio, si legge con troppa letteralità il «Piano di Salvezza» di Scofield, si giungerebbe a pensare che per i patriarchi la Legge fosse condizione di salvezza: il punto di prova non era più l’osservanza legale come condizione di salvezza, ma l’accoglienza o il rifiuto del Messia. Ciò suonerebbe come un abbandono della teologia paolina: come osserva la Bibbia, «Abraamo credette a Dio, e ciò gli fu imputato a giustizia» prima ancora della circoncisione (Rom. 4,3; Gal. 3,6).
In realtà la dottrina biblica afferma l’uniformità della grazia: non c’è un altro Dio che salvi e redima. Il dispensazionalismo ortodosso concorda che ogni salvezza proviene dalla Croce e consiste nel dono di Dio. A dirlo è spesso la letteratura evangelica storica: «la legge non giustifica nessuno» (Gal. 2,16) e l’unico fondamento è il sacrificio del Messia.
Il problema non è l’idea del “tempismo divino” delle dispensazioni, ma quando questa si traduce in un giudizio sugli altri. Se chi interpreta alla lettera queste fasi della storia ritiene che chi viveva prima di Yeshua sia “giustificato dalla legge”, si scorda che pure i padri del Tanakh furono salvati (Eb. 11) e che persino David confessava: «Beati gli uomini a cui YHWH non imputa il peccato» (Sal. 32). In breve, la salvezza è una sola e comune: tutti credono in virtù dello stesso Amore di Dio.
Testimonianze bibliche e teologiche fondamentali
Alla radice del dissidio tra salvezza per opera e salvezza per grazia ci sono versetti chiave. Paolo chiama esplicitamente «dono di Dio» la salvezza: «per grazia siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, è dono di Dio; non per opere». Riprende anche Ef. 2,5-9 l’idea che chiunque crede appartiene già al Regno di Dio come eredità assicurata, indipendentemente dai meriti umani. Gal. 2,16 ribadisce che l’uomo non si giustifica per le opere della legge. Altri testi complementari (Tt. 3,5; Rom. 3,24) confermano lo stesso messaggio incondizionato.
Queste verità trovano eco in tutta la tradizione cristiana. I teologi del periodo patristico e la Riforma protestante hanno insistito sulla sola gratia come cuore del Vangelo. In epoca moderna anche teologi cattolici e protestanti parlano di “grazia gratuita”. Per esempio, il pensiero di Hans Urs von Balthasar e Karl Barth enfatizza l’abbandono totale nel Dio-Amore. Persino Benedetto XVI ha scritto che tutta la redenzione è opera della grazia di Cristo» e che un cristiano sente continuamente gratitudine per un dono immeritato. Anche la teologia contemporanea post-conciliare mostra che la posizione originale di Dio verso ogni uomo è l’amore: come scrive la Commissione teologica internazionale, «l’autocomunicazione di Dio nella grazia» non è un imporre salvezza, bensì un’offerta liberante.
In sintesi, i riferimenti dottrinali più autorevoli confermano che la salvezza è interamente per grazia. Non è mai presentata come un di più delle nostre pratiche religiose, ma come risultato dell’azione gratuita di Dio nel Messia. Come ammoniva anche Agostino di Ippona, «Dio ci ama prima che facciamo qualcosa di buono»: la nostra risposta viene dopo, non prima.
Conclusione
Alla fine la gratuità della grazia resta la verità più confortante. Le «grandi acque» teologiche (differenze di dottrina, paure dottrinali, gruppi faziosi) non possono spegnere l’amore di Dio per noi. Anche quando la discussione si fa accesa, Yeshua ci chiama a ricordare: la nostra salvezza dipende da Lui, non dalle nostre formule. Il Signore, come sottolinea la Scrittura, non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva (Ez. 18,23). Yeshua stesso ha dichiarato di avere portato vita:
Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (Giov. 10,10).
In conclusione, ogni credente può accogliere con fiducia che Dio è innanzitutto Padre amorevole che dona il Regno come eredità a chi crede. La salvezza rimane un dono: non un merito conquistato o un segno da esibire, ma la risposta di Dio alla nostra fede. Così il Cantico dei Cantici ci ispira a non temere le acque che sembrano dividerci, perché l’amore di Dio – la grazia stessa – è più forte di ogni barriera dottrinale. Ecco l’ultima parola: gratitudine e gioia per un Amore che ci precede sempre, fin dal primo istante della nostra fede.