Introduzione
Quando si parla di movimento pentecostale, è doveroso distinguere tra ciò che è nato dall’alto — nel fuoco e nel vento di Gerusalemme nel 33 d.C. (Atti 2) — e ciò che è sorto dal basso, tra le stalle e le panche di Azusa Street nel 1906 d.C. Il primo è fuoco che purifica, il secondo spesso è fumo che confonde. La Pentecoste biblica fu l’irruzione di Dio nella storia, la discesa dell’Altissimo nel linguaggio umano intelligibile. Il pentecostalesimo moderno, invece, è l’irruzione dell’umano negli affati divini, una tensione verso l’alto che, però, non sempre si àncora saldamente alla roccia della Scrittura.
Uno degli aspetti meno analizzati ma più rivelatori del movimento pentecostale moderno è la sua visione — o forse sarebbe meglio dire, la sua illusione — circa i sacramenti. Il pentecostalesimo, almeno nella sua forma più diffusa, riconosce ufficialmente due ordinanze (o sacramenti): il battesimo in acqua e la Cena del Signore. Non li chiama "sacramenti" perché è un termine troppo cattolico, troppo liturgico, troppo istituzionale. Tuttavia, la sua fisionomia spirituale ne tradisce un terzo, che è la vera cifra identitaria del movimento: la glossolalia.
I due sacramenti: battesimo e Cena del Signore
Il battesimo in acqua, per il pentecostale, è un rituale iniziatico, un atto di obbedienza post-conversione, segno esteriore di una trasformazione interiore o "nuova nascita" già avvenuta. La Cena, invece, è memoria, celebrazione, ringraziamento: mai mistero. In entrambi i casi, l’aspetto simbolico è accentuato, mentre quello sacramentale — inteso come mezzo di grazia, canale efficace della presenza di Dio — è deliberatamente negato.
È qui che si manifesta il primo paradosso: si nega la sacramentalità tradizionale, quella teologicamente definita e storicamente e biblicamente fondata, eppure si abbraccia, con fervore quasi mistico, una pratica che funziona esattamente come un sacramento: il parlare in lingue.
La glossolalia: sacramento non dichiarato
Non si tratta di un semplice fenomeno tra tanti altri. La glossolalia è elevata a prova visibile del cosiddetto battesimo nello Spirito Santo, segno tangibile della presenza divina, rito di passaggio spirituale, fonte di edificazione personale, e spesso sigillo identitario dell’autenticità pentecostale. Non è forse tutto questo ciò che, in teologia, si definisce sacramentum?
Con straordinaria coerenza simbolica e involontaria ironia teologica, il pentecostalesimo ha mutato un chàrisma (dono di grazia) in sacramento senza ammetterlo apertamente. Ha istituito un fenomeno lingua-centrico come un’esperienza necessaria e arbitraria, una pratica che distingue il vero credente — secondo la sua teologia — da quello ancora "mancante". Eppure, per paura di cadere nel “ritualismo”, non lo chiama sacramento. Ma se cammina come un sacramento, parla come un sacramento e agisce come un sacramento… forse lo è.
Sacramentalismo selettivo: una contraddizione teologica
È qui che il sistema implode nella sua incoerenza. Si rifiuta la sacramentalità del pane e del vino, del corpo e del sangue, che la Kehillah ha sempre ricevuto come mysterium fidei, ma si eleva il fenomeno linguistico — spesso indistinto, talvolta indistinguibile da forme psicologiche o culturali — a strumento imprescindibile dell’esperienza divina. Il pane resta solo pane, ma il suono della bocca, pur privo di semantica comprensibile, diventa Spirito.
Non è questa un’operazione ardita, anzi pericolosa? Non è forse una forma di gnosticismo liturgico, in cui il vero segno della salvezza non è ciò che il Messia ha ordinato, ma ciò che l’individuo sperimenta interiormente, soggettivamente, emotivamente?
Una sfida alla maturità teologica
Lungi dal voler disprezzare ogni forma di pneumatikà (azioni compiute dallo Spirito) biblicamente legittima e contestualizzata — che fermamente difendo, altrimenti non mi definirei "pentecostale" —, occorre qui chiamare il pentecostalesimo alla maturità della fede. Una fede che sappia distinguere tra l’emozione e la rivelazione, tra l’estasi e la santità, tra il fenomeno e il fine, tra il fuoco autentico di Dio e i bagliori passeggeri delle fiaccole accese dall’uomo.
Il vero sacramento non è ciò che ci dà i brividi ed emozioni, ma ciò che ci dà il Messia. E il Messia si è dato nel pane, nel vino, nel battesimo, nella Parola — e non ha mai prescritto la glossolalia, né Lui né Paolo, come marchio della Sua presenza. Tale "marchio" è stato bollato solo dal pentecistalesimo moderno. Il Signore ha dato il chàrisma delle lingue, lo dato in Atti, ma mai imposto o istituito come sacramentum. Farne un segno distintivo, quando il Maestro stesso ha rifiutato ogni segno come metro della fede (Mt. 12,39), è un pericoloso ribaltamento della teologia apostolica originale.
Se il nostro desiderio è davvero quello di ritrovare la Kehillah delle origini, di riallacciarci alla fede primitiva, di camminare nuovamente lungo i sentieri antichi tracciati dagli apostoli, allora non possiamo accontentarci delle riproduzioni, tradizioni e contraffazioni moderne o delle suggestioni emotive nate a seguito di Azusa Street.
Dobbiamo compiere un ritorno radicale ad fontes, alle fonti autentiche della rivelazione: la Scrittura e la configurazione che essa stessa offre del vero e genuino movimento pentecostale apostolico, nato non in un capannone californiano, ma nel cuore pulsante di Gerusalemme, nel giorno in cui lo Spirito scese come fuoco su teste consacrate alla verità.
Un triste paradosso
È un'amara constatazione: una parte del mondo protestante — in particolare il movimento pentecostale — che un tempo si distingueva per il suo ardente attaccamento alle fonti scritturali, sembra oggi essersi progressivamente allontanata proprio da quelle sorgenti pure da cui traeva vita e autorità.
Paradossalmente, coloro che si sono sempre opposti alla tradizione umana in nome della Parola, hanno finito per edificare nuove tradizioni — non ricevute dagli apostoli, né fondate nella Scrittura — ma costruite sull’emozione, sul sensazionalismo, sulla spettacolarità dei fenomeni, sull’esperienza e su una fenomenologia spirituale che la stessa Bibbia non giudica positivamente (la glossolalia) elevata a dogma.
Conclusione
La vera sfida del XXI secolo non è edificare una Kehillah più carismatica, ma una Kehillah più profondamente messianica. Non una comunità che urla per farsi sentire da Dio, ma che si inchina in silenzio per ascoltarLo davvero. Non una Kehillah che costruisce la propria identità sull’onda dell’esperienza, ma che la àncora saldamente al Vangelo eterno, che non muta e non si presta alle mode spirituali.
Finché il movimento pentecostale moderno non avrà il coraggio di riconoscere, con onestà intellettuale e discernimento spirituale, di aver generato un proprio sistema sacramentale — parallelo e spesso estraneo a quello trasmesso dagli apostoli — esso continuerà ad agitarsi in una ambiguità teologica che logora la sua stessa credibilità.
Perché il fuoco, da solo, non basta: serve l’altare.
- E l’altare di Dio è la croce, non il fenomeno delle lingue.
- È il sangue del Messia, non l’estasi dell’uomo.
- È la Parola fatta carne, non il farfugliare senza senso.