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La Bibbia elogia l'ignoranza?

Falsa umiltà, autoinganno spirituale e disordine nella Kehillah
8 aprile 2025 di
La Bibbia elogia l'ignoranza?
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

Nella cristianità contemporanea sta emergendo — o meglio, riaffiorando sotto nuova veste — una figura profondamente ambigua: il sedicente ignorante che insegna. Si tratta di un soggetto, uomo o donna che sia, che, a parole, si dichiara ignorante in Bibbia, ma che allo stesso tempo non rinuncia mai a parlare, a correggere, a istruire sulla base di "quel poco che sa".

Ecco il paradosso: mentre dai sedicenti sapienti ci si può legittimamente aspettare presunzione, vanagloria e parole gonfie, da chi si professa ignorante ci si aspetterebbe come minimo il silenzio assoluto. Invece accade il contrario: costui trasforma l’ammissione della propria ignoranza in uno strumento di umiltà spirituale, come se il solo dire “sono molto ignorante” lo rendesse automaticamente più trasparente e più guidato dallo Spirito rispetto a chi studia, medita e insegna la Bibbia con vera umiltà, cognizione e preparazione.

Quando l’ignoranza diventa pretesto per l’insegnamento

Chi si dichiara ignorante — e continua a parlare — dimostra in realtà due cose:

  1. Non è intelligente, perché se davvero lo fosse, comprenderebbe che ammettere l’ignoranza, specie pubblicamente, dovrebbe condurlo immediatamente al silenzio, alla riflessione, all’ascolto. Insomma, parlerebbe di meno e ascolterebbe e studierebbe di più.
  2. Non è umile, perché l’umile non va oltre le parole che dice: se ammette pubblicamente di essere ignorante, molto ignorante, non pretende poi di insegnare le cose come se sapesse. L'umile è coerente con quello che dice.

L’ignorante intelligente tace. L’ignorante umile ascolta. Ma il sedicente ignorante che parla, invece, usa la sua dichiarata ignoranza come maschera per conquistare la fiducia degli allocchi, cercando di passare per “semplice unto da Dio” contro i “dotti e sapienti” (che in realtà, in molti casi, sono solo fratelli che hanno studiato seriamente la Parola). Un noto proverbio dice:

Meglio è tenere la bocca chiusa e dare solo l'impressione di essere stupidi, piuttosto che aprir bocca e togliere ogni dubbio


Qal vachomer – "Quanto più…"

Per rendere ancor più chiara l’assurdità di questa posizione, basta applicare il principio rabbinico del “quanto più”:

  • Se un medico, da esperto, evita di pronunciarsi su ambiti che della medicina non conosce, quanto più dovrebbe astenersi dal farlo chi ammette di essere molto ignorante in tale ambito.
  • Se un giudice, pur avendo competenza in giurisprudenza, non sentenzia su casi che non conosce bene, quanto più dovrebbe tacere chi non ha nemmeno una base conoscitiva della materia che pretende di spiegare!
  • Se un ministro di culto esperto in Scrittura riconosce di non doversi esprimere oltre a quello che la Bibbia dice, quanto più dovrebbe tacere chi ammette di essere completamente ignorante o di non saper nulla.

Il vero problema non è solo l’ignoranza, ma l’ostentazione dell’ignoranza come se fosse una medaglia spirituale, una nuova forma di “unzione” non biblicamente fondata. Questo atteggiamento disorienta i semplici, confonde i ruoli e la credibilità dei minsiteri nel Corpo del Messia, mina l’autorevolezza della Parola di Dio e la serietà dell’insegnamento.

Paolo, la conoscenza e la vera umiltà

Spesso si sente ripetere a memoria che «Dio rivela le cose ai piccoli e le nasconde ai dotti», un proverbiale che troviamo anche nella letteratura rabbinica con una sfumatura leggermente diversa (Dio rivela le cose ai bambini e agli imbecilli, ma le nasconde ai profeti) e questa frase — estrapolata fuori contesto — viene brandita per giustificare o addirittura legittimare l’ignoranza come se fosse una virtù degna di ogni persona di grande spiritaulità. Ma ciò che non si dice è che l’apostolo Paolo, a cui tanto si deve nella riflessione teologica cristiana, non era affatto ignorante.

Era formato alla prestigiosa scuola farisaica di Gamaliele, conosceva più chiunque altro la Torah, i Profeti e gli Scritti. Era un dotto e non lo rinnegava. Tuttavia, non ostentava la propria sapienza come titolo di gloria (la debolezza sì, non la forza) perché aveva compreso che la potenza del Vangelo non stava nell’eloquenza umana, ma nella manifestazione dello Spirito e della potenza di Dio (1 Cor. 2,4). Questo però non significa che Paolo predicasse nell’ignoranza o che disprezzasse la conoscenza: la metteva semplicemente al servizio della Verità, con vera umiltà e vero tremore.

Paolo non elogiava l’ignoranza e non disprezzava la conoscenza, ma non si vantava nemmeno della propria preparazione e delle "eccellenti rivelazioni". Quando lo fece, riconobbe subito che ciò aveva generato in lui il pericolo dell’orgoglio. E Dio non gli tolse la «spina nella carne», proprio per preservarlo da un’autoesaltazione che lo avrebbe reso sterile. Essere dotti non è peccato. È peccato vantarsene. Ma lo è anche usare la propria ignoranza come scudo spirituale, fingendo umiltà per evitare di essere chiamati alla responsabilità.

Vogliono essere dottori della Torah, ma non capiscono né quello che dicono né ciò che affermano con tanta sicurezza (1 Tim. 1,7)

Se non capivano nulla di Torah i maestri stessi che la Torah dovevano conoscerla (Mt. 22,29; Mc. 12,24), quanto più coloro che ammettono di essere ignoranti in Scrittura!

La Parola di Dio non celebra l’ignoranza. La invita piuttosto a essere colmata dallo studio assiduo, dalla meditazione, dalla preghiera, dall’ascolto di chi ha un vero mandato all'insegnamento. E, soprattutto, insegna che chi sa di non sapere, si metta a sedere e impari in silenzio, senza alzarsi in piedi per insegnare ciò che dice di ignorare. Il monito di imparare in silenzio non è rivolto solo alle donne (1 Tim. 2,11-12), ma implicitamente anche agli uomini ignoranti.

"Se sbaglio, correggetemi": chi tace acconsente?

C’è una sottile e pericolosa sfumatura che si annida spesso nella figura del sedicente ignorante: la falsa disponibilità alla correzione. Frasi come “Se sbaglio, dimmelo. Sono pronto a essere corretto” suonano nobili, umili, spiritualmente mature. Eppure, in molti casi, non sono altro che formule di cortesia, frasi di facciata che nascondono ben altro spirito.

Perché il falso umile non cerca davvero la correzione, la attende come prova a suo favore. Se nessuno lo corregge, egli lo prende come conferma: “Nessuno dice nulla? Bene, significa che ho ragione!”. Dalla serie: chi tace, acconsente. Ma l’assenza di confutazione o correzione non è la prova della verità. Spesso è solo la prova dell’indifferenza di chi non ha tempo da perdere.

Chi è veramente saggio e dotato di discernimento non spreca tempo in dibattiti sterili, non getta pubblicamente le perle ai porci (Mt. 7,6), e non combatte battaglie dove manca la minima premessa di onestà intellettuale. Per questo molti, davanti al sedicente ignorante, tacciono non per mancanza d’amore o per incapacità di controbattere, ma per rispetto della verità. Perché la verità non si spreca in confronti fittizi.


Il paradosso è che chi dice “correggetemi” pone già una condizione: continuerò a pensarla così finché non mi smentite. È una trappola logica e spirituale: si presume che il mondo debba reagire, che la verità ruoti attorno a lui, che il silenzio altrui equivalga a un applauso. Ma il vero umile non ha bisogno che qualcuno lo corregga per rivedere le proprie idee. Il vero umile non delega gli altri nell'illuminarlo, ma dà spazio allo Spirito Santo affinché sia Lui a istruirlo veramente. Il vero umile si interroga, si documenta, si mette in discussione, si impegna a consultare le fonti in modo diligente. Non vive in attesa di una confutazione per correggersi, ma in uno stato di vigilanza interiore costante, di autocritica matura e ricerca vera. Ecco la verità:

  • L’assenza di replica non è sinonimo di approvazione.
  • Il silenzio non è consenso unanime.
  • E chi lo crede, non solo non è umile, ma non ha ancora compreso il cuore della sapienza.

Dio può lasciare qualcuno nell'ignoranza

Dio, nella Sua sovrana volontà, può lasciare l’uomo nell’ignoranza come strumento di giudizio o di protezione, affinché il cuore umano si pieghi davanti alla luce di Dio solamente quando è pronto ad accoglierla. Non si tratta qui di una virtù, ma di una condizione imposta per evitare la presunzione e per far emergere la vera umiltà, poiché chi realmente sa di non sapere si cuce la bocca, mentre chi ostenta la propria ignoranza come una medaglia perde ogni affidabilità e credibilità.

​Come reagiremmo se l'apostolo Paolo, nelle sue lettere, dichiarasse di essere ignorante nelle Scritture e, nonostante ciò, si aspettasse di essere seguito e preso sul serio? Sarebbe una contraddizione evidente, poiché Paolo era noto per la sua profonda conoscenza delle Scritture e per la sua formazione sotto Gamaliele, uno dei più rispettati maestri della Torah (At. 22,3). La sua autorità derivava non solo dalla sua esperienza spirituale, ma anche dalla sua solida preparazione teologica. Pertanto, sarebbe inappropriato per lui o per chiunque altro vantarsi dell'ignoranza e allo stesso tempo "pretendere" di insegnare con autorevolezza.

Il latte è per i neonati, non per i maestri

L’apostolo Paolo non era indulgente con quei credenti che, dopo anni di fede, dimostravano ancora ignoranza e una comprensione infantile delle cose di Dio. In Eb. 5,12-13, li ammonisce duramente:

“Infatti, dopo tanto tempo dovreste essere già maestri, invece avete di nuovo bisogno che vi siano insegnati i primi elementi degli oracoli di Dio. Siete giunti al punto da aver bisogno di latte, e non di cibo solido!”

Quello di Paolo non è affatto un elogio all’ignoranza, ma una denuncia esplicita all'ignoranza protratta nel tempo. Paolo si stupisce che, dopo tanto cammino, dopo tanti anni di conversione, ci sia ancora bisogno di ripartire dai rudimenti. Chi, oggi, ammette la propria ignoranza dopo anni di fede dovrebbe considerare seriamente il passaggio paolino: il riconoscimento dell’ignoranza non è un titolo per insegnare, ma un richiamo a tornare ai banchi di scuola, a rimettersi tra i discepoli, non tra i maestri.

Per Paolo, l’insegnamento è responsabilità di chi ha maturato discernimento (e chi non ce l'ha, lo chieda a Dio), non di chi continua a dire di non sapere. Non si tratta di discriminazione, ma di ordine spirituale e rispetto per la Parola.

Conclusione: discernere l’umile dal falso umile

La Kehillah, il popolo santo convocato da Dio, ha un bisogno urgente e non più rimandabile: recuperare il discernimento spirituale. Perché la falsa umiltà può forse ingannare i sempliciotti, ma non confonde chi possiede anche solo un briciolo di intelligenza spirituale. Il vero umile non cerca autorità attraverso il proprio “non sapere”, non si gloria dell’ignoranza, non la usa come strategia per sembrare più spirituale e più umile. Al contrario, si mette in disparte, cresce in silenzio, si lascia formare, tace — fino a quando Dio stesso non gli dà voce.

Ecco perché molte chiese locali non crescono, ecco perché certi ministeri sono stagnanti e sterili: perché sono guidati da chi parla senza aver ricevuto, da chi insegna senza aver appreso, da chi pretende senza aver servito, da chi insegna senza aver studiato. E la loro influenza si limita a chi è ancora più confuso e disinformato di loro.

Insegnare è un onore tremendo. Non è per chiunque, ma per chi è stato formato, temprato, purificato e reso saldo nella Parola. Chi si improvvisa maestro facendo leva sulla propria ignoranza non è un “piccolo servo fedele”, come ama pensarsi. È una minaccia travestita da semplicità.

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