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Oltre il latte spirituale

Appello alla maturità nella conoscenza delle Scritture
31 luglio 2025 di
Oltre il latte spirituale
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

In un’epoca di crescente superficialità spirituale, si fa strada tra molti credenti, anche con ann di fede alle spalle, l’idea che il ritorno alla cosiddetta “semplicità del Vangelo” sia la panacea di ogni crisi nella fede. Con accenti nostalgici si invoca la rinuncia a ciò che viene percepito come “complesso”, come se la profondità teologica fosse sinonimo di confusione, o peggio, di deviazione. Tuttavia, questa tendenza, lungi dall’essere un sintomo di fedeltà, si rivela piuttosto una forma di stasi spirituale. L’apostolo Paolo, già nel I secolo, ammoniva severamente comunità che, pur avendo avuto tempo e mezzi per crescere, dimostravano un bisogno infantile di tornare al «latte spirituale», rifiutandosi di nutrirsi di cibo solido (Eb. 5,11-14).

In questo articolo intendo esaminare l’importanza dello studio profondo delle Scritture e denunciare l’errore — spesso mascherato da umile zelo — di chi rifiuta la maturità spirituale scambiandola per sterile complicazione.


Il principio del progresso spirituale nella Bibbia

La Scrittura presenta la vita spirituale non come uno stato statico, bensì come un cammino in continuo divenire. Dalla Genesi all’Apocalisse, la rivelazione divina si sviluppa come una narrazione dinamica, una storia che cresce e si approfondisce, proprio come dovrebbe fare il credente. Già nel giardino dell’Eden, Adamo ed Eva non erano creature compiute nella conoscenza del bene e del male (avevano solo la nozione), ma esseri in cammino, chiamati a una progressiva comprensione e obbedienza. E così Israele, nella sua storia, viene condotto da Dio per mano, tappa dopo tappa, attraverso la Torah, i Profeti, l’esilio e infine il ritorno, fino alla piena rivelazione in Yeshua il Messia.

Il principio di crescita è strutturale alla rivelazione. Non si tratta di un’aggiunta morale alla fede, ma della sua logica interna. In Prov. 4,18 leggiamo:

La via dei giusti è come la luce dell’alba, che aumenta in splendore fino al meriggio.

La fede è paragonata all’aurora, che da un timido chiarore si trasforma gradualmente in pieno giorno. Così è la vita del credente: comincia nella semplicità, ma è chiamata alla pienezza, alla maturità, alla profondità.

Le Scritture Apostoliche riprendono e approfondiscono questa immagine. Paolo e gli autori apostolici non si stancano di ricordare che la fede autentica comporta una crescita costante. In Eb. 5,12 leggiamo un’ammonizione tagliente: «Dopo tanto tempo, dovreste essere già maestri». Questa frase non è solo un richiamo dottrinale, ma una denuncia pastorale. È come se Paolo dicesse:

Come è possibile che dopo anni di ascolto della Parola, di preghiere, di culto, di lode e adorazione, voi siate ancora incapaci di comprendere le cose più profonde?

La conversione, il battesimo nello Spirito, l’entusiasmo iniziale: tutto questo è essenziale, ma non esaustivo. L’infanzia spirituale è una fase naturale, ma se protratta oltre il necessario diventa patologia. È giusto che un neofita spirituale viva del latte della Parola, ma è disfunzionale che, a distanza di anni, egli rifiuti ancora il cibo solido, o gli volti le spalle dopo averlo degustato. La crescita non è opzionale: è la condizione stessa per discernere, per servire, per essere strumenti maturi nelle mani di Dio. Non è l'esperienza della fede a farci diventare maturi, ma la conoscenza umile dell Paola! Rifiutarla equivale a un’infanzia cronica che paralizza la vocazione del credente e ne svuota la testimonianza.


Latte e cibo solido: due stadi, non due vangeli

L’analogia usata da Paolo non potrebbe essere più chiara:

Ora, chiunque usa il latte non ha esperienza della parola di giustizia, perché è bambino; ma il cibo solido è per gli adulti; per quelli, cioè, che per via dell'uso hanno le facoltà esercitate a discernere il bene e il male (Eb. 5,13-14)

Non si tratta di due vangeli, ma di due stadi di assimilazione dello stesso Vangelo. Il latte è la forma elementare, semplificata, spesso emotiva ed emozionale. È essenziale per cominciare. Ma nessun corpo può crescere senza passare al nutrimento più denso. Così accade per l’anima.

La cosiddetta “semplicità del Vangelo” non è un alibi per evitare lo studio, la riflessione, la fatica dell’esegesi. Il Messia stesso spiegava le Scritture «iniziando da Mosè e da tutti i profeti» (Lc. 24,27), mostrando come esse parlassero di Lui. Lungi dall’essere un oratore semplicistico, Yeshua era un maestro profondo, capace di adattarsi alla comprensione degli uditori, ma anche deciso nel condurre i discepoli verso vette più alte. Il Vangelo è "semplice" per essere accessibile, ma profondo per non esaurirsi mai. Chi si arresta alla superficie lo banalizza.


Il pericolo della stagnazione spirituale mascherata da “fedeltà”

Nel mondo cristiano contemporaneo si va sempre più affermando una retorica spirituale che, sotto il velo della semplicità e della fedeltà al Vangelo, nasconde una resistenza profonda alla maturazione. È un atteggiamento che si presenta come umile, come “puro”, eppure, nella sua essenza, cela due minacce silenziose: la paura e la pigrizia. Si dice: “Non serve sapere tanto, basta amare Dio”. Frase apparentemente nobile, sicuramente in buonissima fede, ma che rivela una disaffezione per la conoscenza delle Scritture e una sfiducia verso le profondità della fede.

Questo tipo di riduzionismo spirituale, benché diffuso, è estremamente pericoloso. Esso separa ciò che la Scrittura tiene insieme: l’amore per Dio e la conoscenza di Lui. Non è un caso se Yeshua, citando lo Shema', afferma con chiarezza:

Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente (Mt. 22,37)

La mente è parte integrante dell’amore verso Dio. Amare Dio senza conoscerLo significa idealizzarLo, non servirLo. E conoscere Dio superficialmente conduce inevitabilmente a fraintendimenti teologici, pratiche distorte, e infine a idolatrie mascherate.

Chi si oppone alla dottrina, allo studio biblico, alla riflessione teologica, spesso lo fa perché percepisce questi ambiti come “complessi”, “inaccessibili”, “troppo alti”. Ma la complessità non è l’opposto della fede, bensì il terreno nel quale essa viene affinata. Ogni relazione profonda comporta anche profondità di comprensione. Così, la relazione col Dio vivente non può ridursi a emozioni, formule ripetitive come "Alleluyha, gloria a Dio, viva Cristo": essa cresce nella misura in cui ci lasciamo trasformare dalla verità della Sua Parola.

La dottrina, lungi dall’essere un esercizio arido, è lo strumento con cui lo Spirito plasma la mente del credente. Una comunità che non cresce nella comprensione delle Scritture è una comunità che rimane spiritualmente anemica. Come può un corpo spirituale sopravvivere di solo latte? Come può la Kehillah testimoniare con potenza, se i suoi membri non discernono (cosa per tutti), non insegnano (cosa per pochi), non riflettono (cosa per tutti)?

Chi rifiuta il cibo solido in nome di una presunta semplicità non esprime vera fedeltà, ma rinuncia alla propria chiamata alla maturità. Non si può glorificare Dio restando bambini per sempre. La fedeltà autentica non evita la profondità: la cerca. E nel cercarla e nel desiderio di cercarla, cresce. Ed è proprio a causa della scarsa conoscenza della Paola o del tanto rivendicato slogan di tornare alla "semplicità del Vangelo" che spesso ci si ritrova soli o sballottati in assemblee a buon mercato dove vengono predicate solo emozioni.


La responsabilità pedagogica della Kehillah

Uno dei più gravi errori ecclesiali contemporanei è il tradimento, spesso inconsapevole, della sua vocazione pedagogica. Le parole dell’apostolo Paolo rivolte alla comunità di Corinto suonano come una diagnosi spietata:

Io, fratelli, non ho potuto parlarvi come a spirituali, ma come a carnali, come a bambini nel Messia (1 Cor. 3,1)

Questa non è una dolce carezza pastorale, ma un rammarico vibrante, un’accusa di stagnazione. L’immaturità spirituale dei Corinzi non è presentata come un difetto passeggero, ma come un ostacolo concreto all’opera dello Spirito nella loro santificazione.

La Kehillah non è un rifugio per l’immobilismo, ma una scuola per la maturità. Il suo ruolo non si esaurisce nell’evangelizzazione — pur fondamentale — ma si estende alla formazione, alla crescita, alla trasformazione dei credenti. L’idea che basti proclamare “Gesù ti ama, l'amore è l'unica cosa che conta” per tutta la vita cristiana è tanto riduttiva quanto ingannevole. L’amore del Messia è il fondamento, ma su di esso bisogna edificare, con sapienza, una fede solida e una comprensione robusta delle Scritture. Paolo, in Col. 1,28, riassume magistralmente la visione apostolica del ministero:

Insegnando ogni uomo in ogni sapienza, per presentare ogni uomo perfetto nel Messia.

Chi guida una comunità, se abdica alla responsabilità di nutrirla spiritualmente, tradisce il suo mandato. Il pastore che per timore di apparire “troppo dottrinale” si limita a somministrare verità elementari e incoraggiamenti emotivi, assomiglia a un medico che preferisce dare caramelle anziché medicine per paura delle reazioni del paziente. Ma lo zucchero spirituale non cura: anestetizza. Non guarisce le ferite, le lenisce soltanto. E se da un lato consola nell’immediato, dall’altro indebolisce nel lungo termine.

La Scrittura è composta da latte (primizie) e carne (e le due cose non vanno di per sé mescolate, ma assimilate gradualmente, cfr. Es. 23,19; 34,26; Deut. 14,21), e il compito di chi insegna è discernere quando l’uno o l’altro sono necessari. Ma la finalità ultima è sempre la stessa: la crescita, la maturità, la trasformazione. Il fine del ministero non è la gratificazione del credente, ma la sua edificazione. Formare adulti nel Messia, capaci di discernere, insegnare, "dibattere" per la giusta causa, soffrire per il Vangelo, è il segno di una Kehillah viva.

È dunque urgente che le assemblee riscoprano la pedagogia della fede: una pedagogia che forma menti e cuori, che guida dal latte alla carne, e che non si accontenta di fedeli consolati, ma li conduce a essere discepoli compiuti.


Le radici filosofiche dell’antintellettualismo spirituale

Nel cuore della crisi spirituale contemporanea si annida un fenomeno sottile ma pervasivo: l’antintellettualismo spirituale. Si tratta di un atteggiamento di sospetto o rifiuto verso ogni forma di pensiero articolato, di dottrina strutturata, di approfondimento teologico. Questo spirito, purtroppo, ha varcato le soglie di molte comunità cristiane, dissimulato sotto le apparenze dello zelo per la “purezza della fede” o della “semplicità del Vangelo”. In verità, esso è figlio di una cultura postmoderna frammentata, dominata dalla soggettività, dalla spiritualità individualistica ("lo Spirito mi ha detto che.."), dalla gratificazione immediata, e da un crescente disinteresse per la lettura, lo studio e la meditazione.

La società dell’immagine, della velocità e del consumo ha diseducato intere generazioni alla pazienza dell’ascolto e alla profondità della riflessione. Questa tendenza ha infiltrato anche il mondo ecclesiale, generando fedeli affamati di emozioni, ma digiuni di vera verità. Il Vangelo viene ridotto a slogan, la predicazione a intrattenimento, la dottrina a un optional riservato agli “studiosi”. Ma la verità biblica non può essere fruita come un contenuto social. Essa richiede tempo, disciplina, preghiera e studio. La fede, per essere autentica, ha bisogno di radici profonde.

L’antico ideale greco della paideia, la formazione integrale della persona, trova un suo parallelo nella visione biblica dell’uomo come unità inscindibile di corpo, anima e spirito. La Scrittura non disgiunge mai il cuore dalla mente: anzi, per la mentalità biblica il cuore è proprio la sede dei pensieri! L’amore per Dio deve coinvolgere tutta l’anima (nefesh), tutta la forza (chazaq) e tutta l’intelligenza (cfr. Deut. 6,5; Mt. 22,37). Una fede che si nutre solo di emozioni, priva di formazione dottrinale, è vulnerabile alle derive dell’eresia o della superstizione.

La Kehillah ha dunque il dovere di riabilitare la mente come luogo del culto. Educare l’intelletto non significa intellettualizzare la fede, ma onorare Dio con la totalità del nostro essere. Solo quando l’ortodossia (la retta dottrina) e l’ortoprassi (la retta condotta) camminano insieme, l’essere umano raggiunge quell’armonia spirituale che la Scrittura chiama «maturità nel Messia». Se l’amore è cieco, smarrisce La Via. Se la fede è ignorante, si svuota di discernimento.

Riscoprire una paideia cristiana significa tornare a formare discepoli pensanti, capaci di ragionare, discernere, e testimoniare con lucidità la propria fede in un mondo intellettuale che pretende intellettualità. È tempo di riconsegnare alla Kehillah il pensiero, non come minaccia alla fede, ma come suo alleato più fedele.


L’esempio di Yeshua: maestro e rivelatore

Tra tutte le figure della Scrittura, nessuna incarna meglio la perfetta sintesi tra accessibilità e profondità quanto Yeshua, il Messia. Egli fu Maestro per eccellenza non perché abbassasse il livello della rivelazione divina, ma perché sapeva condurre i Suoi discepoli a comprendere, passo dopo passo, il cuore delle Scritture. Il suo insegnamento era sapienziale, non semplificato; pedagogico, non banalizzato. Non infantilizzava il Vangelo per compiacere gli ascoltatori, ma rivelava il Mistero del Regno a chi era disposto a cercare, a domandare, a crescere.

In Mt. 13,11, dopo aver pronunciato le parabole, Yeshua dice:

A voi è dato conoscere i misteri del Regno dei cieli, ma a loro non è dato.

Con questa affermazione Egli riconosce che la rivelazione non è destinata a chi ascolta superficialmente o a chi ama "le cose semplici", ma a chi accoglie la verità con cuore disponibile e mente attenta. Il Vangelo, dunque, è sì semplice nel suo appello universale, ma profondo nella sua sostanza. È una verità che richiede discernimento, meditazione, e una trasformazione intellettuale oltre che spirituale.

Nei Vangeli sinottici, le parabole funzionano come chiavi d’accesso: celano ai distratti e agli svogliati e svelano ai discepoli desiderosi e assetati di Dio. Ma è nel Vangelo di Giovanni che l’elemento teologico raggiunge una vetta vertiginosa già nel prologo:

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio (Giov. 1,1)

Qui non troviamo una “semplice” buona novella, ma un trattato cristologico (e filosofico) denso e profondissimo, che esige attenzione, memoria, confronto con il Tanakh e apertura al Mistero. Un mistero che divide cristiani (chi accetta e chi non accetta la Deità di yeshua) da secoli. Chi dunque contrappone la “semplicità del Vangelo” alla teologia non solo fraintende il Vangelo, ma nega lo stile stesso di Yeshua. Egli non offriva verità precotte, ma interrogava, scuoteva, sfidava. Ai discepoli non risparmiava le parole difficili; pensiamo al discorso sul «mangiare la Sua carne e bere il Suo sangue» (Giov. 6:53), che suscitò scandalo e abbandono. Eppure non ritirò le Sue parole per renderle più accettabili, dolci e accessibili. Yeshua era il primo a essere tutt'altro che "semplice".

Yeshua è Maestro perché accompagna, ma anche perché eleva. Non plasma discepoli passivi, ma pensatori spirituali, uomini e donne capaci di ricevere la Parola, meditarla, viverla e trasmetterla. Seguendo il Suo esempio, ogni comunità credente è chiamata non solo a proclamare il Vangelo, ma a rivelarne la profondità, affinché la fede maturi e il discepolato sia autentico.


Crescere non è un optional, è obbedire

La crescita spirituale non è un'opzione accessoria per i credenti particolarmente zelanti o intellettualmente inclini. È, al contrario, un comando implicito nella stessa struttura della fede cristiana. L’apostolo Pietro esorta:

Desiderate ardentemente il puro latte spirituale, affinché per esso cresciate per la salvezza (1 Pt. 2,2)

Questo invito non è un semplice consiglio spirituale: è un imperativo che indica una traiettoria precisa. La fede non è statica. Non basta iniziare bene; bisogna anche progredire bene, svilupparsi bene, maturare bene fino alla piena statura nel Messia (Ef. 4,13).

Il desiderio iniziale del latte spirituale è giusto e necessario. Ma come ogni desiderio sano, esso deve produrre un cambiamento reale, tangibile. Il segno della maturità spirituale non è il numero di versetti imparati a memoria e ripetuti a "mantra", ma la capacità di discernere il bene dal male (Eb. 5,14), di non conformarsi al mondo (Rom. 12,2), e di trasmettere fedelmente la verità. Il credente maturo è colui che ha una mente rinnovata, un cuore saldo, una parola che edifica.

Nel contesto biblico, obbedire non significa solo compiere azioni esteriori, ma trasformarsi interiormente. Paolo lo afferma con forza a Timoteo:

Sforzati di presentarti davanti a Dio come un uomo approvato, che non abbia di che vergognarsi e che dispensi rettamente la Parola della Verità (2 Tim. 2,15)

L'obbedienza si manifesta anche — e soprattutto — nell’impegno intellettuale e spirituale di conoscere rettamente la Parola. La verità va studiata, meditata, e correttamente annunciata. Una mente che non cresce rischia di deformare la fede. È proprio tra i credenti privi di fondamenti solidi che si diffondono le false dottrine, i cliché, le spiritualità superficiali e le deviazioni teologiche. L’ignoranza non è innocente: può diventare pericolosa, specie se in bocca di chi ha tanti anni di fede (Eb. 5,12). Ecco perché lo studio biblico non è un lusso riservato a pochi, ma un dovere per ogni discepolo. Certo, non bisogna essere in molti a fare da maestri (Giac. 3,1), ma è doveroso che tutti siamo discepoli in crescita, maestri inclusi. La Scrittura non si limita a chiamarci alla fede, ma ci comanda di crescere in essa, giorno dopo giorno.

Crescere, dunque, è obbedire. È rispondere alla grazia non solo con gratitudine, ma con formazione. È onorare Dio non solo con le labbra, ma con una mente che sa pensare secondo il Suo Spirito. E in questo processo, la Kehillah diventa ciò che è chiamata a essere: la comunità di coloro che apprendono da Dio per trasmettere agli altri.


Conclusione

L’appello finale è chiaro e urgente: è tempo di riscoprire la profondità delle Scritture e liberarsi dall’illusione che “semplicità” significhi “superficialità”. Il latte spirituale è utile per l’inizio, ma non può sostenere chi è chiamato a maturare nella fede. Rifiutare il cibo solido — per paura, comodità o abitudine — significa accettare una fede immatura, incompleta, e, spesso, vulnerabile. Non si tratta di “guadagnare la salvezza” con lo studio, ma di proteggerla, custodirla, farla fruttificare. L’ignoranza spirituale non è una virtù, e può aprire la porta a inganni sottili e deviazioni dottrinali.

Amare Dio implica desiderare di conoscerLo, e ciò avviene mediante la Sua Parola. Il Vangelo è semplice nell’accesso, ma infinito nella profondità: ridurlo a frasi facili o emozioni istantanee significa snaturarne la verità. La Kehillah — la comunità dei redenti — ha il dovere di formare credenti adulti, pronti a insegnare, discernere, combattere. La battaglia spirituale richiede armi pesanti, non slogan.

Senza una solida armatura, dichiararsi "guerrieri" della fede non è solo vano, ma profondamente contraddittorio. Un combattente privo di formazione, discernimento e verità (oltre che esperienza) è poco più che un civile travestito da soldato: vulnerabile, disorientato, impreparato. La maturità spirituale non è un premio per pochi, ma una chiamata universale, un imperativo che scaturisce dalla fedeltà al Messia. Chi si espone sul campo senza essere equipaggiato con la verità della Parola, rischia di essere travolto dal primo urto dottrinale, come è successo al sottoscitto più di una volta. Anziché combattere, scappa! Si isola. Si piange addosso.
Nessun vero guerriero o guerriera si nutre di panbrioché e latte prima della battaglia: il combattimento richiede energire, forza, resistenza, lucidità — e queste qualità spirituali, queste "kilocalorie dello Spirito" si sviluppano solo con il cibo solido della verità biblica, non con nutrimenti infantili. Crescere, dunque, è l’allenamento necessario per chi prende sul serio la "militanza nel Regno".

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