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Parashat Bo (Es. 10,1—13,16)

Sotto il sangue dell’Agnello: il disegno eterno della Redenzione
3 maggio 2025 di
Parashat Bo (Es. 10,1—13,16)
Giusy Conforto
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Parashah (Genesi 10,1-2; 11,1-10; 12,12.29-20)

Il giudizio del primogenito

Il Signore, nella Sua sovrana sapienza, richiama Mosè al disegno divino che sottende l’indurimento del cuore del Faraone e dei suoi ufficiali: un disegno che non è arbitrario, ma pedagogico, rivelativo e giudiziale (Es. 10,1-2). L’ostinazione del sovrano egiziano, già manifesta nelle piaghe precedenti, raggiunge un culmine drammatico nelle ultime tre: la piaga delle cavallette (ottava), quella delle tenebre (nona), e infine l’apice del giudizio con la decima piaga, in cui viene colpito ciò che nell’antico Egitto rappresentava la continuità, l’eredità, la speranza: i primogeniti (Es. 11,1-10; 12,29-30). In questo progressivo irrigidirsi del cuore del Faraone si riflette lo specchio di ogni coscienza che resiste alla luce della Verità: l’uomo che si ostina a non arrendersi a Dio, può essere da Dio stesso confermato nella sua ribellione (Rom. 9,17-18), a testimonianza della Sua giustizia e della Sua assoluta Signoria.

La decima piaga non è solo l’apice del giudizio, ma il sigillo teologico della sovranità di YHWH sul tempo, sulla vita e sulla morte. Colpendo i primogeniti, Dio colpisce simbolicamente l’intero futuro dell’Egitto, dimostrando che l’impero del Faraone non poggia su sé stesso, ma è assolutamente subordinato al volere del Creatore (Es. 12,12). In questo atto solenne, YHWH si rivela come il Dio vivente, il cui Nome non è un’etichetta religiosa, ma una potenza attiva che giudica e salva. Non sono gli dèi d’Egitto a governare il destino, ma il Dio di Israele, che fa distinzione tra chi Gli appartiene e chi si oppone alla Sua volontà (Es. 11,7).

E quando la Parola stessa diventa agente di giudizio, anche Mosè, l’uomo di Dio, deve farsi da parte e nascondersi (Es. 11,4). Nessuna mediazione umana può frapporsi all’azione diretta del Verbo che condanna e riscatta. Il lutto che cala sull’Egitto è il contrappunto drammatico della gloria che si manifesterà nella liberazione di Israele. I primogeniti muoiono “nel nome della nazione”, poiché l’identificazione collettiva del popolo egiziano con l’idolatria e la ribellione porta con sé la condanna dell’intero corpo. Così, anche nel giudizio più severo, risplende la pedagogia divina: Dio parla affinché il Suo Nome sia conosciuto da tutte le generazioni (Es. 9,16).


Riscatto del primogenito

Israele non può salvarsi da sé nel giorno dell’ira, quando l’Angelo del Signore attraversa la terra d’Egitto con spada implacabile. L’unico rifugio, stabilito da Dio stesso, è il sangue di un agnello: maschio, dell’anno, senza difetto (Es. 12,3-5). È attraverso questo sacrificio sostitutivo che il popolo viene posto al sicuro; non per merito, non per potenza, ma per fede ubbidiente che si sottomette all’ordine divino e si rifugia sotto un segno di sangue (Es. 12,7.13). L’Agnello pasquale non è solo un atto rituale, ma una profezia vivente, un’ombra di un giudizio più grande e di una salvezza più profonda: esso annuncia una Pesach futura, nella quale l’Agnello di Dio stesso porterà su di Sé il colpo del Giudice (Giov. 1,29; 1 Cor. 5,7).

Così come la prima Pesach accompagna la nascita storica di Israele come nazione redenta, la morte e resurrezione di Yeshua fondano la nostra rinascita spirituale, la liberazione dalla schiavitù del peccato e della morte (Rom. 6,6-11). Il riscatto mediante il sangue divino non è un episodio del passato, ma il principio generatore di un popolo nuovo. È significativo che, proprio in concomitanza con la decima piaga, venga istituito un nuovo calendario:

Questo mese sarà per voi il primo dei mesi (Es. 12,2)

La redenzione non segna solo una liberazione, ma l’inizio di un tempo nuovo. Tutto il ciclo della vita d’Israele sarà regolato a partire da questo atto fondativo.

Senza quel sangue, nessuno potrebbe vivere. Ma con quel sangue sugli stipiti, ogni famiglia d’Israele viene trasformata in un santuario custodito dal giudizio. Il ricordo di questa salvezza diventa istituzione perpetua: la festa degli Azzimi, che richiama la fuga affrettata (Es. 12,17.39), e il riscatto del primogenito, che richiama il prezzo pagato affinché il popolo potesse vivere (Es. 13,2.13-15). Il primogenito, simbolo del futuro, non appartiene più alla famiglia né alla nazione, ma a Dio stesso, a cui dev’essere offerto o riscattato. Anche tra gli animali, ciò che nasce per primo è suo: poiché il Dio che salva è anche il Creatore che rivendica ogni primizia (Num. 18,15-17).

La festa pasquale e il riscatto dei primogeniti non sono meri rituali, ma memoriali viventi che radicano in ogni generazione l’identità di un popolo redento. Ogni anno, ogni famiglia, ogni figlio primogenito deve portare inciso il ricordo di un Dio che salva con mano potente, ma solo attraverso la morte di un innocente al posto del colpevole. Israele è chiamato a non dimenticare che la libertà non è un diritto, ma un dono: e il sangue dell’agnello grida, in ogni generazione, che l’appartenenza al Signore è stata acquistata a caro prezzo (Es. 12,24-27). La redenzione non è un evento individuale, ma una pedagogia cosmica: persino gli animali sono inclusi, a testimonianza che la Signoria di YHWH si estende sull’intero creato (Es. 13,12; Col. 1,20).


Besorah (Giovanni 19,31.37)

Dal costato al compimento: l'Agnello intatto

La pratica cruenta di spezzare le ossa ai condannati alla crocifissione serviva ad accelerare la morte, poiché, privati del sostegno per respirare, soccombevano in breve tempo per asfissia. Senza tale intervento, il supplizio poteva protrarsi per molte ore, perfino giorni, trasformando la croce in uno strumento di lenta agonia e disperazione. Tuttavia, quando i soldati si avvicinarono a Yeshua e constatarono che era già morto, non gli spezzarono le gambe (Giov. 19,33), ignari di stare adempiendo una Scrittura antica e precisa, custodita nei precetti della Pesach: «Non ne spezzerete alcun osso» (Es. 12,46). L’agnello pasquale doveva essere immolato senza fratture, segno di perfezione e consacrazione. In questo dettaglio narrativo si cela una verità dirompente: Yeshua non solo muore nella Pesach, ma come la Pasqua. È l’archetipo vivente dell’agnello, Colui nel quale tutte le ombre della Torah trovano pienezza (1 Cor. 5,7; 1 Pt. 1,19).

La scena si carica di ulteriore significato quando uno dei soldati, con gesto impulsivo e apparentemente casuale, trafigge il costato di Yeshua con una lancia, e ne sgorgano sangue e acqua (Giov. 19,34). Anche questo atto, frutto di ignoranza militare, diventa strumento profetico nelle mani di Dio: è l’adempimento di Zac. 12,10, laddove il Signore annuncia un giorno futuro in cui Israele «guarderà a Me, a Colui che hanno trafitto». Non si tratta di una ferita qualsiasi, ma del sigillo messianico che lega la prima venuta alla seconda: il trafitto di allora sarà il Re glorificato del domani. Il pianto che seguirà sarà quello di chi riconosce, troppo tardi, di aver respinto l’Amato.

Yeshua non muore per caso né secondo i tempi degli uomini. Morendo prima del tempo previsto, senza che gli siano spezzate le ossa, Egli mostra di offrire la vita non perché gli viene tolta, ma perché Egli stesso la depone (Giov. 10,18). In questo gesto supremo si compie una Scrittura che unisce l’Egitto alla croce, la notte di redenzione alla luce del Golgota, l’agnello terreno al Figlio eterno.


Conclusione

Fin dalla fondazione del mondo, YHWH aveva già stabilito nel Suo calendario eterno il piano di redenzione per tutta la creazione (Ap. 13,8). Nulla avviene per caso nel disegno divino: ogni Scrittura, ogni festa, ogni precetto e ogni profezia sono tessere di un mosaico più grande, che converge nella figura di Yeshua, l’Agnello immolato per noi. Egli è il Sostituto per eccellenza, l’unico capace di prendere il nostro posto sotto il giudizio, affinché in Lui trovassimo non una semplice sopravvivenza, ma la vera Vita, eterna e riconciliata con Dio (Giov. 1,29; Is. 53,5-6).

Ogni parola profetica, pronunciata nei secoli, talvolta a distanza di generazioni e in contesti diversi, trova in Lui il suo compimento (Lc. 24,27; Mt. 5,17-18). Perché ciò che Dio ha detto, Egli lo compirà: la Sua Parola non torna a vuoto (Is. 55,11). Come gli antichi israeliti, nella notte della prima Pesach, dovettero per fede ubbidire al comando e rifugiarsi sotto il sangue dell’agnello per essere risparmiati (Es. 12,13), così anche noi, in ogni generazione, siamo chiamati a quell’obbedienza di fede che si rifugia sotto il sangue prezioso del Messia (1 Pt. 1,18-19). Senza questo sangue, non v’è remissione, né comunione, né vita (Eb. 9,22).

Come Israele celebra ogni anno la Pesach per ricordare la potente liberazione di YHWH dall’Egitto, così anche noi siamo chiamati a commemorare il sacrificio del nostro Agnello. Ma il nostro ricordo non è solo un atto liturgico: è una riattivazione spirituale della memoria, una proclamazione vivente di ciò che Yeshua ha compiuto per strapparci dalle fauci della geenna, dal dominio del peccato, dalla morte eterna (1 Cor. 11,26). In Lui, e solo in Lui, troviamo la riconciliazione con il Padre, la pace autentica e la vita abbondante (Col. 1,20-22; Giov. 10,10).


Ascolta la parashah di Daniele Salamone (28/01/2023)


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