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Parashat Vaera' (Es. 6,21—9,35)

Dal giudizio su Egitto e faraone alla vittoria messianica su satana
26 aprile 2025 di
Parashat Vaera' (Es. 6,21—9,35)
Marco Manitta
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Introduzione

Nella parashah di questa settimana, il Santo si rivela al Suo popolo con il Nome ineffabile: YHWH — non un semplice appellativo, ma una dichiarazione di fedeltà eterna, un sigillo divino che attesta: “Io sono Colui che mantiene ciò che ha promesso". È il Dio che vede l’afflizione, ode il gemito e scende per riscattare. Dopo ottant’anni di oppressione sotto il giogo d’Egitto, si apre l’ora stabilita dal Cielo: non solo una liberazione storica, ma il simbolo profondo di una redenzione più alta, quella dall’oppressione invisibile e corrosiva del peccato. In questo disegno profetico, Mosè anticipa Yeshua, il vero Liberatore, l’Agnello designato a togliere il peccato del mondo (Giov. 1,29), realizzando in pienezza ciò che il Nome aveva promesso fin dall’inizio.


Parashah (Esodo 6,27; 7,4-5.22; 8,10.22; 9,4.14.16.19-21.26.34-35)

Mosè, il profeta di YHWH

Chi, se non Mosè, poteva essere l’uomo scelto per condurre il popolo d’Israele fuori dalla terra d’Egitto e guidarlo verso la Terra Promessa, Canaan? Egli solo, tra tutti gli Ebrei, possedeva la singolare prerogativa di potersi presentare davanti al faraone (Es. 3,10), colui che si faceva adorare come una divinità vivente. La sua chiamata non fu frutto del caso, bensì parte integrante di un disegno divino, concepito fin dalla sua nascita: Mosè, salvato dalle acque (Es. 2,10), fu accolto nella casa reale egiziana, cresciuto dalla figlia del faraone (Es. 2,5-10), educato nei palazzi del potere e immerso nel cuore del sistema idolatrico che un giorno avrebbe dovuto sfidare. La sua vocazione era dunque duplice: liberare gli Israeliti e nello stesso tempo pronunciare il giudizio dell’Eterno contro la casa del faraone (Es. 7,4-5).

Eppure, Mosè non accolse la missione con fervore. Al contrario, cercò rifugio nella propria debolezza, sollevando obiezioni sulla sua incapacità di parlare (Es. 4,10), sulla sua poca autorevolezza (Es. 3,11) e sull’ostinazione del faraone (Es. 6,12). Ma Dio non si lascia dissuadere dall’insicurezza dell’uomo; Egli chiama chi vuole e lo rende idoneo. A Mosè affianca Aaronne, suo fratello, per essere il suo portavoce e collaboratore nel compimento dei segni e dei giudizi che sarebbero presto piombati sull’Egitto (Es. 4,14-16; 6,13,27).

Insieme, Mosè e Aaronne diventano un’unità inscindibile — echad — che agisce in perfetta sinergia, immagine della collaborazione ideale all’interno del popolo di Dio. Dove l’uno parla e l’altro agisce, lì si manifesta la volontà divina. Questo modello si fa profezia per le assemblee dei santi: comunità dove non regna l’individualismo, ma l’armonia di cuori, voci e menti unite nel servire l’Eterno (Rom. 15,6; 1 Cor. 12,12). Dove ognuno si completa con l’altro, nasce un corpo solo, vivo e operante, in cui la presenza di Dio si compiace di abitare (Ef. 4,16).

Le cinque promesse di YHWH per il Suo popolo

È fondamentale osservare con attenzione il nucleo della rivelazione divina in Es. 6,6-8, dove YHWH pronuncia cinque promesse solenni ai figli d’Israele, rivelando il cuore del Suo piano redentivo. Queste promesse non sono semplici dichiarazioni, ma tappe di un processo salvifico completo, che va dalla liberazione fisica all’insediamento nella vocazione spirituale. Esse seguono una struttura sapienziale e simmetrica, che svela l’ordine intenzionale del disegno divino:

  1. Io vi farò uscire da sotto le angherie dell’Egitto (6,6): il primo passo è la liberazione dal lavoro forzato, disumano, inflitto da un sistema oppressivo che negava il riposo e la dignità. Questa affermazione è ribadita con forza al versetto 7, per scolpire nei cuori degli Israeliti che solo YHWH è l’Autore della loro liberazione.
  2. Vi libererò dalla loro schiavitù: la schiavitù non è solo politica o economica, ma anche cultuale. Israele era costretto a servire falsi déi, immerso in un sistema spirituale corrotto. La liberazione implica un taglio netto con il culto idolatrico egiziano.
  3. Vi redimerò con braccio steso e con grandi giudizi: al centro del discorso, questa promessa rappresenta l’asse portante dell’intervento divino. La redenzione è accompagnata da giudizi che colpiscono gli oppressori e da un braccio potente che protegge i redenti. È un atto di giustizia e di alleanza.
  4. Io vi prenderò come mio popolo, e sarò il vostro Dio (6,7): non si tratta solo di una liberazione da, ma anche per. Israele è chiamato a diventare un popolo consacrato, al servizio di YHWH, legato a Lui da un patto di appartenenza e di fedeltà.
  5. Vi introdurrò nella terra [...] e ve la darò in possesso (6,8): l’obiettivo finale è l’ingresso in un luogo di stabilità, eredità e comunione, la realizzazione della promessa fatta ai padri.

La struttura è chiara e profondamente simbolica:

  • La prima e l’ultima promessa si corrispondono, formando l’arco della narrazione: uscita dall’Egitto e entrata in Canaan sono i due poli del cammino di redenzione.
  • La seconda e la quarta si rispecchiano: liberarsi dal servizio idolatrico per servire YHWH come popolo santo.
  • Al centro (terza promessa), vi è il fulcro: la redenzione con giudizi e braccio steso, segno della potenza divina che agisce per amore e giustizia.

Così, nella sapienza di Dio, la liberazione non è mai fine a sé stessa, ma preparazione a una nuova identità, a una vocazione di servizio e a una vita in comunione con il Dio vivente. 

Le piaghe come giudizi divini contro la casa del faraone e il suo popolo

YHWH, nel colpire l’Egitto con le dieci piaghe, non agisce in modo cieco o vendicativo, ma con sovrana intenzionalità. Egli si serve delle stesse divinità egiziane, rovesciandole o ridicolizzandole, per manifestare la loro impotenza e smascherare l’inganno dell’idolatria. Quelle che per gli Egizi erano potenze divine, diventano strumenti o bersagli della volontà dell’Unico. Così YHWH dimostra davanti a tutto l’Egitto che non esiste alcun dio all’infuori di Lui (Es. 12,12), rispondendo, piaga dopo piaga, alla domanda sprezzante del faraone: «Chi è YHWH, perché io debba ubbidire alla Sua voce?» (Es. 5,2). Ogni piaga è un’affermazione divina: «Affinché tu sappia che Io sono YHWH» (Es. 7,5; 8,10; 9,14.16.29).

Ma Dio non si rivela come un sovrano impulsivo. Egli agisce secondo uno schema preciso, ordinato, quasi pedagogico. Le piaghe non sono punizioni arbitrarie, bensì conseguenze prevedibili, annunciate e condizionate. Il faraone avrebbe potuto comprenderne il meccanismo e ravvedersi. In realtà, non è Dio a desiderare la distruzione dell’Egitto: è la disobbedienza ostinata del faraone a innescare le piaghe, attirandole su di sé (Es. 9,15-17). Ogni ciclo di giudizio si apre con un avvertimento: Dio dà tempo, istruzioni, possibilità di scelta. In alcune piaghe – come la quinta e la settima – Egli offre perfino consigli pratici per evitare il danno (Es. 9,19-21). Questo dimostra che l’obiettivo divino non è la rovina, ma la rivelazione della Sua gloria, affinché il Suo nome sia proclamato su tutta la terra (Es. 9,16; Rom. 9,17).

Le dieci piaghe seguono una struttura sapienziale: sono divise in tre gruppi da tre (ciascuno con due piaghe preannunciate e una senza avvertimento), più una decima piaga finale, a sé stante. Ogni ultima piaga di ogni gruppo giunge come castigo diretto per la doppia disobbedienza. Questo ordine mostra che YHWH agisce con misura, giustizia e misericordia, non con furia caotica. La decima piaga, la morte dei primogeniti, è il colpo finale, ma solo dopo che ogni altra via è stata pazientemente offerta.

Durante tutto il ciclo delle piaghe, la terra di Goshen, dove abitavano gli Israeliti, rimane indenne (Es. 8,22; 9,4.26; 10,23). Questo dettaglio è eloquente: non si tratta di fenomeni naturali o casuali, ma di un’azione deliberata e selettiva, orchestrata da YHWH, il Sovrano dell’universo. In questo modo, Egli non solo rivendica la Sua unicità, ma svergogna l’intero pantheon egiziano, privandolo di potere e dignità. Le divinità dell’Egitto non sono che idoli muti: burattini nelle mani del vero Dio. Non esiste nessun concorrente all’altezza di YHWH: 

Io Sono YHWH, e non ce n’è altri; fuori di me non c’è Dio (Is. 45,5) 
Il faraone e i suoi ministri

L’ostinazione del faraone nel rifiutarsi di liberare il popolo d’Israele divenne la causa della rovina sua e della sua nazione. Nonostante le piaghe mandate da YHWH e i segni evidenti della Sua potenza, il cuore del faraone si induriva sempre di più. Né i suoi ministri, che giunsero a supplicarlo di cedere (Es. 10,7), né i maghi, che tentarono di imitare i miracoli peggiorando la situazione (Es. 7,22), riuscirono a farlo cambiare. Il faraone diventa così simbolo dell’uomo spiritualmente sordo e cieco, che di fronte all’evidenza della mano di Dio sceglie la ribellione piuttosto che la resa.

Il suo cuore di pietra è un monito per ogni generazione: chi resiste alla volontà divina e finge pentimento solo per convenienza, senza un vero cambiamento, non fa che attirare su di sé giudizi sempre più severi. Infatti, appena la piaga si ritirava, il faraone tornava ai suoi comportamenti iniziali, dimostrando che il suo ravvedimento era solo superficiale (Es. 9,34-35). YHWH, tuttavia, agiva sempre con giustizia e misura, offrendo tempo e avvertimenti prima di ogni giudizio. Ma laddove non vi è umiltà né apertura al cambiamento, anche la misericordia si trasforma in giustizia. Il faraone ne fu testimone e vittima.


Haftarah (Ezechiele 28,25–29,21)

L'umiliazione del superbo: quando Dio abbatte gli dèi dell’Egitto

Il profeta Ezechiele pronuncia un giudizio severo contro il re d’Egitto, figura emblematica dell’arroganza umana che si innalza al livello del divino. Il sovrano si vanta dicendo:

Il mio fiume è mio, e l’ho fatto io stesso (Ez. 29,3.9)

attribuendosi la creazione e il controllo del Nilo, fonte primaria di vita e prosperità per la nazione. Questa dichiarazione non è solo presunzione, ma un’usurpazione della gloria divina. Di fronte a tale superbia, YHWH decreta rovina e desolazione: l’Egitto sarà spopolato e ridotto a un deserto (Ez. 29,10-12). Tuttavia, il fine ultimo di questo giudizio non è la distruzione fine a sé stessa, ma l’umiliazione redentiva: «Così diventeranno il regno più umile» (29,15).

Il giudizio divino, quindi, va compreso non come una punizione cieca, ma come uno strumento pedagogico. Il Signore corregge per educare, disciplina per riportare alla verità, agisce con fermezza per insegnare la dipendenza da Lui (Prov. 3,12; Eb. 12,6). Nella sofferenza inflitta si cela un intento d’amore: formare un cuore umile, liberare l’uomo dall’illusione della propria autosufficienza e condurlo a riconoscere che solo in Dio c’è vita, sicurezza e sapienza.


Besorah (Luca 11,14-22)

Il più Forte è venuto: vittoria su satana e chiamata alla vera sequela

I farisei, pur essendo esperti della Torah e religiosamente zelanti, si mostrano incapaci di riconoscere in Yeshua il Messia promesso. Sempre alla ricerca di un segno (Matteo 12:38), essi dimostrano però un cuore indurito, ostile alla rivelazione divina. Non solo rifiutano la Sua autorità, ma arrivano ad accusarlo gravemente, affermando che Egli scaccia i demoni per mezzo di Belzebù, il “signore delle mosche” (Mt. 12,24), un’offesa blasfema. Ma Yeshua, conoscendo i loro pensieri per rivelazione dello Spirito, risponde con saggezza e logica: un regno diviso contro sé stesso è destinato a cadere (Mt. 12,25). Se Egli operasse per satana, starebbe minando il suo stesso regno.

Con la parabola dell’uomo forte (Lc. 11,21-22), Yeshua rivela di essere il “più forte” che irrompe nella casa del nemico, lo disarma e ne libera i prigionieri. Egli è Colui che ha vinto satana, spogliandolo di ogni autorità (Col. 2,15), anticipando così il compimento finale di questa vittoria nel Regno messianico a venire. Ma tale liberazione ha già effetti reali oggi, per chi accetta Yeshua, compie metanoia e si affida alla Sua Signoria: satana perde ogni potere, perché la persona appartiene ormai al Messia.

Quando Yeshua afferma: «Chi non è con Me, è contro di Me; e chi non raccoglie con Me, disperde» (Lc. 11,23), Egli smaschera l’ipocrisia di chi si affida alla sola osservanza esteriore della Torah, senza vera sottomissione al cuore della Torah, che è il Messia stesso. Non basta conoscere, né basta fare meccanicamente: è necessaria una trasformazione interiore, operata dallo Spirito Santo. È lo Spirito che prende il controllo della vita rigenerata, producendo il frutto genuino dell’obbedienza, dell’umiltà e della somiglianza a Yeshua. Chi non si lascia condurre da Lui, pur conoscendo la Legge, in realtà non raccoglie ma disperde.


Conclusione

YHWH, con braccio steso e mediante giudizi potenti, ha piegato l’orgoglio del faraone e infranto il sistema idolatrico egiziano, liberando i figli d’Israele dalla servitù dei falsi dèi per condurli verso la terra promessa, Canaan. Ma non si trattò soltanto di una liberazione fisica, bensì dell’inizio di una nuova identità: Israele divenne il popolo consacrato a Dio, chiamato a servirLo in santità e verità (Es. 6,6-8). Questo grande atto di redenzione anticipa una liberazione ancora più profonda e definitiva: quella compiuta da Yeshua il Messia.

Yeshua ha vinto l’uomo forte, satana, disarmando i suoi ministri e liberandoci dalla sua influenza (Lc. 11,21-22; Col. 2,15). Ma non solo: mediante il Suo sacrificio volontario, ci ha liberati anche dal dominio del peccato, trasformandoci da schiavi a figli adottivi di Dio (Giov. 1,12; Rom. 8,15). La croce non è solo uno strumento di morte, ma il segno eterno del patto di grazia: come Moshe alzò le mani per intercedere e placare la piaga (Es. 9,29), così Yeshua ha teso le Sue mani sulla croce, e in esse troviamo scolpiti i nostri nomi (Is. 49,15-16).

Quelle mani forate sono il sigillo visibile del patto unilaterale di Dio, lo stesso stipulato con Avraham (Gen. 15), dove solo Dio attraversò i pezzi del sacrificio, assumendosi tutto il peso dell’alleanza. Così Yeshua, senza che nessuno potesse collaborare alla Sua opera, ha placato l’ira divina, offrendo Se stesso come espiazione per il peccato e la ribellione di tutti coloro che credono in Lui (Is. 53,5; Rom. 5,9). Ma per chi rifiuta, per chi rimane ostinato e indurito di cuore, l’ira di Dio rimane (Giov. 3,36). La croce è dunque bifronte: salvezza per chi crede, giudizio per chi resiste.


Ascolta la parashah di Daniele Salamone (21/01/2023)


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