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Come deve funzionare una chiesa locale?

Autonomia pneumatica, interdipendenza universale e rischi del centralismo denominazionale
1 ottobre 2025 di
Come deve funzionare una chiesa locale?
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

Quando si parla di “governo” della Kehillah, si rischia spesso di contrapporre due caricature: da un lato, l’idea di una kehillah locale totalmente “sciolta” da legami, autosufficiente e impermeabile alla correzione fraterna; dall’altro, il modello di una struttura centralizzata che, in nome dell’unità, esercita un controllo capillare e permanente su assemblee e ministeri. Entrambe le figure non corrispondono al profilo biblico della comunità di Yeshua né all’ecclesiologia missionaria maturata nel dibattito contemporaneo.

David J. Bosch ha contribuito in modo decisivo a ripensare il rapporto fra Kehillah e missione: non è la Kehillah che “intraprende” la missione, ma è la missio Dei (missione di Dio) a costituire la Kehillah e a rinnovarla di continuo (Ef. 3; Mt. 28,18-20). Da qui una conseguenza cruciale: «la chiesa-in-missione è, primariamente, la chiesa locale dovunque nel mondo», e nessuna kehillah locale sta, secondo le Scritture Apostoliche, “in posizione di autorità” sopra un’altra kehillah locale (At. 13,1-3; si veda l’intero epistolario paolino). Questa prospettiva smonta l’assunto che l’unità richieda necessariamente una burocrazia centralizzata e, insieme, contesta l’equivoco che l’autonomia locale significhi isolamento o autoreferenzialità.

Nel quadro che segue, si offre:

  1. la cornice teologica di Bosch;
  2. un riesame dei testi biblici rilevanti;
  3. un profilo storico-critico del centralismo missionario e dei suoi correttivi;
  4. un’articolazione positiva del principio:
    1. collegio di anziani interni, guidati dallo Spirito, sì;
    2. “fiato sul collo” di un corpo governativo esterno, no;
  5. una valutazione dei rischi legati all’identità denominazionale come “marchio” espansionista;
  6. infine, alcune linee operative per il funzionamento odierno di una kehillah locale fedele alla Scrittura e realmente universale .

1. Cornice teologica: missio Dei, kehillah locale e universale

Per Bosch, missione ed ecclesiologia non stanno in rapporto gerarchico (prima la Kehillah, poi la missione), ma in rapporto generativo: è l’iniziativa del Dio trinitario che chiama in esistenza una comunità inviata; la Kehillah è medium della missione, non solo suo “prodotto” (Giov. 20,21; At. 1,8). Ne segue che il punto focale non è un apparato centrale, bensì la comunità concreta che, sotto la Parola e i segni, discerne e testimonia nel proprio contesto. Le pagine più note di La Trasformazione della Missione (disponibile in inglese nella BiblioYeshiva sez. "Apocligetica e Saggistica") insistono proprio su questo ancoraggio locale: «la chiesa-in-missione è, primariamente, la chiesa locale» e la rinnovata coscienza missionaria sboccia nella comunità radunata, non al di fuori di essa.

Questo radicamento, tuttavia, non legittima un “localismo” settario. Bosch parla di una kehillah “particolare” che esiste in virtù dell'universalità: la una sancta non è un’entità astratta preesistente alle assemblee locali, ma il tessuto di comunione che le mette in rapporto di reciproco arricchimento, correzione e verifica (1 Cor. 12; Ef. 4,1-16). La località va “de-provincializzata” mediante contatti vitali con l’intero Corpo del Messia, in una dinamica di «unità nella diversità riconciliata».

In questo quadro, Bosch parla di interdipendenza (non indipendenza!): un lessico che evita tanto l’isolamento quanto il controllo verticale, e che abbraccia nuove relazioni di responsabilità reciproca tra assemble e gruppi di studio, superando le vecchie dicotomie “chiese mittenti/ riceventi”.


2. La trama biblica: collegio di anziani, guida dello Spirito, comunione tra assemblee

Le Scritture Apostoliche mostrano una Kehillah sorprendentemente leggera nelle strutture e densa di discernimento pneumatologico. A Gerusalemme, il cosiddetto “concilio” (At. 15) non istituisce un ministero centrale di controllo: di fronte a un conflitto dottrinale e pratico reale (circoncisione e identità dei credenti dalle genti), apostoli e anziani ascoltano testimonianze, leggono le Scritture (Am. 9,11-12 LXX), pregano e concludono con una formula che vale più di qualunque burocrazia: «È parso bene allo Spirito Santo e a noi [...]» (At. 15,28). Viene inviata una lettera con carico minimo di prescrizioni, non una costituzione che istituisce “quartieri generali”. I destinatari restano assemblee responsabili davanti a Dio e ai propri anziani (At. 15,30-31).

Paolo istituisce anziani in ogni assemblea (At. 14,23), chiede a Tito di stabilirli «città per città» (Tt. 1,5), descrive i criteri di episcopato/presbiterato (1 Tim. 3,1-7; Tt. 1,6-9) e raccomanda ai presbiteri di Efeso: «Badate a voi stessi e a tutto il gregge [...] in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti vescovi» (At. 20,28). Paolo sta responsabilizzando, non "dettando legge". Pietro, da parte sua, esorta i presbiteri (anziani) a pascere «non come dominatori» ma come modelli (1 Pt. 5,1-4). Ne risulta un profilo di autogoverno locale: un collegio di anziani all’interno dell’assemblea, costituiti e sorvegliati dallo Spirito, con responsabilità pastorale, dottrinale e disciplinare.

Questa autonomia è temperata da relazioni inter-ecclesiali effettive: si scambiano persone e doni (At. 11,27-30; 18,24-28), si raccolgono fondi per altre assemblee (2 Cor. 8–9; Rom. 15,25-27), si inviano emissari come ambasciatori (2 Cor. 5,20) e si riconoscono reciprocamente (Gal. 2,9). Ma la comunione non si traduce in un “capo-ufficio” esterno: Paolo non “commissaria” Corinto o Galazia; li ammonisce, li consola, difende l’Evangelo dalle loro deviazioni, ma non sostituisce la responsabilità dei loro anziani né impone un marchio unitario (1 Cor. 3,5-11; 2 Cor. 1,24). La polemica contro i partiti, fazioni o "scuole di pensiero" [hairesies] («Io sono di Paolo [...] io di Apollo [...] io di Cefa [...]») mostra quanto la “brandizzazione” di leader o sigle minacci l’unità del Corpo (1 Cor. 1,10-13; 3,1-9).

Persino quando compaiono figure ingombranti, come Diotrefe «che ama avere il primato» (3 Giov. 9-10), la soluzione non è un organo centrale che commissaria la kehillah, bensì una correzione apostolica che richiama al criterio evangelico: accoglienza della verità, ospitalità, testimonianza fedele (3 Giov. 5-8). In breve: la norma apostolica è una rete di assemblee autonome sotto lo Spirito, con anziani responsabili e relazioni fraterne, non una piramide disciplinare.

Questa trama biblica coincide con la tesi storica di Bosch: la pretesa di una Kehillah universale “precedente” alle assemblee locali è un’astrazione; l'universalità è l’insieme vivo delle assemblee particolari nella loro martyria (testimonianza), leitourgia (liturgia), koinonia (comunione) e diakonia (servizio). Per analogia, non può esserci un corpo se prima non ci sono cellule.


3. Dalla centralizzazione missionaria alla riscoperta della kehillah locale

La storia mostra lunghi periodi in cui missione e Kehillah furono pensate “dall’alto”: basti ricordare la Propaganda Fide (1622) e lo ius commissionis, con cui la Sede romana “affidava” territori a ordini missionari, generando di fatto assemblee “di seconda classe” legate a un centro esterno. Bosch ricostruisce con equilibrio questi processi (incluse le ambivalenze coloniali) e documenta come la stagione successiva — non senza lentezze e resistenze — abbia superato il modello di delega gerarchica, fino all’abolizione dello ius commissionis e alla visione dei missionari come ambasciatori da una kehilah locale a un’altra, segno di solidarietà tra pari.

In parallelo, anche il mondo protestante ha dovuto dismettere l’idea secondo cui evangelizzazione = estensione della propria struttura: ridurre la missione a “conteggio di adesioni” o “duplicazione di sedi” tradisce l’Evangelo e appiattisce la Kehillah in un progetto organizzativo. Bosch è netto: evangelizzazione non coincide con crescita numerica né con church extension (estensione della chiesa); il criterio biblico rimane il Regno di Dio che irrompe, non l’allargamento del proprio marchio-brand.

In positivo, l’ecclesiologia missionaria contemporanea ha rimesso al centro due accenti che qui contano molto:

  1. la soggettualità della kehillah locale — «la chiesa-in-missione è, primariamente, la chiesa locale» e
  2. la mutua responsabilità fra assemblee come forma concreta dell'universalità: non superiori/inferiori, ma membra che si appartengono e si correggono, «interdipendenti (non indipendenti!)».

4. Governo locale “sotto lo Spirito”: anziani sì, controllori no

Un'assemblea locale non deve essere “governata” da un’istituzione centralizzata, ma dallo Spirito Santo, attraverso ministri riconosciuti e responsabili all’interno della comunità.

  1. Agenti dell’inculturazione e del discernimento. Bosch osserva che, nell’attuale comprensione della missione, i due agenti primari sono lo Spirito Santo e la comunità locale (con speciale rilievo del laicato): né il missionario né la “gerarchia” controllano dall’esterno i processi. Questo non esclude il ministero di teologi e inviati, ma li ricolloca come compagni di apprendimento.
  2. Collegio di anziani. Biblicamente, l’assemblea è affidata a presbiteri stabiliti «città per città» (Tt. 1,5), capaci d’insegnare, confutare gli oppositori (1,9), governare «bene la propria casa» (1 Tim. 3,4-5) e vigilare sul gregge «in mezzo al quale lo Spirito vi ha costituiti vescovi» (At. 20,28). Questa governance interna è il dispositivo ordinario della Kehillah delle Scritture Apostoliche.
  3. Visita e sollecitudine apostolica, senza commissariamento. Paolo “veglia” sulle assemblee fondate (2 Cor.; Gal.), ma non crea un “ufficio centrale” che rilasci licenze o sanzioni amministrative. Egli persuade, ammonisce, invia collaboratori (Timoteo, Tito, Apollo), organizza collette, coordina, ma non esautora le assemblee. È un padre (1 Cor. 4,15), non un prefetto.
  4. Comunità responsabili in comunione. La koinonia tra assemblee e gruppi di studio prende la forma di consigli fraterni, scambi di doni, invio di persone, lettere: strumenti dialogici e pneumatici, non apparati coercitivi. La comunione è reale senza burocrazia.

In concreto, questo significa: sorveglianza e cura? Sì. Centralismo amministrativo? No. La differenza non è di poco conto: la prima è pastorale, puntuale e relazionale; il secondo è strutturale, permanente e, alla lunga, soffoca la responsabilità locale e la creatività missionaria.


5. Il nome che portiamo: tra comunione e “brandizzazione”

Un’ulteriore implicazione riguarda il nome o denominazione delle assemblee locali. Nelle Scritture Apostoliche le comunità sono «la Kehillah di Dio che è in [...]» (1 Cor. 1,2; 1 Tess. 1,1; Ap. 2–3). L’etichetta denominazionale, di per sé, può indicare una tradizione dottrinale o liturgica legittima; ma quando funziona come marchio espansionista, tende a slittare in due errori:

  • Sostituire l'universalità con la sigla: si finisce per identificare quella denominazione con “la Chiesa” tout court, svalutando o scomunicando implicitamente le altre, e nutrendo la tentazione di considerarsi “il Corpo” anziché “un membro” del Corpo (1 Cor. 12,12-27).
  • Misurare il successo in termini d’insediamenti: la logica dell’espansione di marchio porta a contare sedi e tessere più che discepoli; è la deriva denunciata da Bosch quando distingue tra evangelizzazione e reclutamento di membri o church extension.

Al tempo stesso, Bosch mette in guardia da una proliferazione senza freni di nuove assemblee «per differenze minime», definendolo un «virus» protestante che spezza la comunione visibile. La soluzione non è il ritorno a un centro controllante, ma nuove relazioni di interdipendenza, responsabilità e rendicontazione reciproca, perché nel Corpo «non c’è più in alto e più in basso» (1 Cor. 12; Gal. 3,28).

6. Linee operative: come dovrebbe funzionare oggi una kehillah locale
Alla luce della Scrittura e della sintesi di Bosch, una kehillah locale autonoma sotto lo Spirito e interdipendente nella cattolicità opererà così:
  1. Governo presbiteriale interno. Un collegio di anziani qualificati (1 Tim. 3; Tt. 1) — non “un uomo solo al comando” — cura dottrina, disciplina, diaconia e direzione pastorale (At. 20,28; 1 Pt. 5,1-4). Le decisioni si prendono discernendo insieme: «È parso bene allo Spirito Santo e a noi [...]» (At. 15,28).
  2. Ministeri plurali e carismi distribuiti. Il Signore dona alla kehillah locale inviati, profeti, evangelisti, pastori e dottori «per l’edificazione del Corpo» (Ef. 4,11-16; 1 Cor. 12–14). Nessun organo esterno “trattiene” su di sé tutti i ministeri come se lo Spirito li concentrasse in una sola sede. Questo è precisamente il rischio della “nazionalizzazione” dei carismi in un centro (Rom. 12,3-8).
  3. Rendicontazione. Autonomia non significa solitudine: gli anziani rendono conto alla kehillah (1 Pt. 5,3), la kehillah al Messia (Ap. 2–3), e le assemblee tra loro mediante patti di comunione: scambio di visitatori, revisione fraterna dei conti (2 Cor. 8,20-21), consultazioni dottrinali quando necessario (At. 15).
  4. Relazioni inter-assemblee non gerarchiche. Le assemblee collaborano in reti o alleanze dove si promuovono formazione, missione, aiuti, tutela degli abusi; la logica è quella di ambasciate tra assemblee, non di prefetture. Questo è, per Bosch, l’habitus missionario maturo: missionari come ambasciatori da una comunità locale a un’altra in segno di solidarietà.
  5. Identità ecclesiale non “brandizzata”. La kehillah locale porta primariamente il nome del luogo e del Messia (1 Cor. 1,2; 1 Tess. 1,1): a Milano, a Catania, a Firenze, ecc. Se anche si riconosce in una tradizione, non confonde denominazione e Kehillah universale; non fa proselitismo alla propria sigla, né ruba pecore ad altri pastori, ma fa discepoli (Mt. 28,19), evitando l’equazione più sedi = più Vangelo.
  6. Dottrina e disciplina come beni comuni. L’ortodossia non è garantita da un “ufficio centrale”, ma dal deposito apostolico custodito localmente (2 Tim. 1,13-14) e verificato sinodalmente tra assemblee sorelle quando sorgono controversie (At. 15; Gal. 2). Questo esige formazione biblica diffusa e prassi trasparenti.
  7. Finanze al servizio della missione, non della macchina. La raccolta è finalizzata a cura dei poveri, sostegno dei ministri, invio missionario, giustizia e misericordia (2 Cor. 8–9; 1 Tim. 5,17-18). La comunione materiale tra assemblee (Rom. 15,25-27) è segno di interdipendenza, non tributo a un centro governativo.
  8. Inculturazione “dal basso”. Il Vangelo prende carne nei contesti mediante la guida dello Spirito e l’iniziativa della comunità locale, non per “accomodamenti” imposti dall’alto: il padre diventa compadre, il missionario impara e non domina.
  9. Unità senza uniformità. Si pensa “globalmente” e si agisce “localmente”: si partecipa a una comunità ermeneutica universale in cui le assemblee si correggono a vicenda i bias culturali, evitando tanto l’ingessatura quanto il particolarismo (noi nella sana dottrina, gli altri no).
  10. Vigilanza contro due derive: (a) l’indipendentismo che rifiuta ogni controllo fraterno; (b) il centralismo che spoglia le assemblee della loro responsabilità. Il criterio evangelico e paolino resta l’interdipendenza nel Corpo, «senza alto e basso».



Obiezioni e chiarimenti

Obiezione: senza un centro forte, si rischia l’anarchia dottrinale.

  • Risposta: la Scrittura non propone l’anarchia, ma una sinodalità missionaria: anziani qualificati, correzione reciproca, consigli occasionali per questioni comuni (At. 15), scambio di lettere e persone, e — soprattutto — criterio evangelico (Gal. 1,6-9). Il centro della kehillah non è un ufficio, è il Messia presente nello Spirito (Mt. 18,20; Ef. 2,22).

Obiezione: ma l’unità visibile non richiede strutture centralizzate?

  • Risposta: l’unità è un imperativo evangelico che ha come scopo la testimonianza (Giov. 17,21). Per Bosch, ciò implica relazioni nuove e responsabilità reciproca, non una catena di comando. L’unità evangelica si esprime nella comunione tra assemblee più che nell’uniformità amministrativa.

Obiezione: l’espansione denominazionale garantisce risorse e qualità.

  • Risposta: le risorse servono, certo, ma quando l’evangelizzazione si identifica con estensione di un marchio, si sposta l’asse dal Regno a noi stessi. Le comunità diventano «club» omogenei, “parlano, pensano e appaiono allo stesso modo”, e l’Evangelo si riduce a un sistema culturale. Bosch contesta esplicitamente questa riduzione.

Conclusione

Tirando le somme, la tesi è chiara e, alla luce della Scrittura e di Bosch, solida:

  1. Soggetto della missione è Dio; la Kehillah esiste perché inviata (missio Dei). La sua forma ordinaria e di partenza è la kehillah locale: lì si ascolta la Parola, si spezza il pane, si esercitano i carismi, si prendono decisioni «con lo Spirito» (At. 2,42; 13,1-3; 15,28).
  2. Governo: un collegio di anziani vigila, insegna e guida (At. 20,28; 1 Tim. 3; Tt. 1; 1 Pt. 5), senza “tutori” esterni permanenti. La sorveglianza esiste — Paolo non fa finta di nulla, ma insegna e corregge quando necessario — ma è pastorale e relazionale, non burocratica.
  3. Unità: la comunione tra assemblee è reale e necessaria; prende forma in interdipendenza e rendicontazione reciproca, non nell’assoggettamento gerarchico.
  4. Identità: la kehillah locale non è la vetrina di un marchio; evitare la “brandizzazione” preserva l’orientamento al Regno e protegge dal sentirsi “la vera Chiesa” a scapito delle altre membra del Corpo (1 Cor. 1–3; 12).
  5. Missione: evangelizzazione non è replicare sedi; è generare discepoli nati di nuovo che partecipano attivamente alla vita del Regno (Mt. 28,19-20; Rom. 14,17). La crescita numerica può essere un frutto, non il metro ultimo; ciò che conta è la fedeltà al Messia e la qualità della comunione (Giov. 13,34-35).

In termini pratici, questo significa promuovere assemblee e gruppi locali capaci di pensare e agire con maturità nel proprio contesto, rendendo conto alle assemblee sorelle e cooperando con esse (non devibi esistere chiese che si fanno i fatti propri); formare anziani che coltivino l’arte del discernimento comunitario e del confronto fraterno; investire in relazioni e non in apparati; costruire reti non gerarchiche che facilitino missione, tutela, trasparenza e cura; favorire un linguaggio ecclesiale che anteponga «la kehillah di Dio che è in [luogo X-Y-Z]» alla sigla di un'associazione culturale o ente morale di culto; esercitare la cattolicità come scambio di doni, ministeri e servizi e correzione reciproca, perché «l’universale parla solo in dialetto» — ma parla al plurale, e lo fa nello Spirito.

In questo orizzonte, l’“autonomia” non è un feticcio organizzativo; è il nome ecclesiale della responsabilità di una comunità che sta davanti a Dio e agli uomini, sotto lo Spirito e con le assemblee, per la vita del mondo.

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