Passa al contenuto

Un frutto buono non basta

Discernere l’albero secondo la Scrittura
30 settembre 2025 di
Un frutto buono non basta
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
| Ancora nessun commento

Introdu​zione

Nella vita comunitaria contemporanea, il linguaggio dei «frutti» è spesso invocato come prova decisiva della bontà di un ministero, di un leader, di una comunità. Conversioni dichiarate, opere caritative, efficienza organizzativa, consensi sui social, crescita numerica: tutto questo viene presentato come «frutto buono» e, in quanto tale, ritenuto garanzia dell’albero che lo produce. Eppure la narrazione biblica, se letta con pazienza canonica e con un discernimento guidato dallo Spirito, ci costringe a una verifica più radicale.

Un frutto che appare buono al gusto può non essere conforme alla natura dell’albero; può essere seducente all’occhio e gradevole al palato, ma restare velenoso allo «stomaco» dell’alleanza, cioè incompatibile con la volontà del Padre (Gen. 3,6; Mt. 7,21). È qui che il proverbio ecclesiale «dai frutti li riconoscerete» viene spesso semplificato fino a rovesciarne il senso: non ogni frutto gradevole certifica un albero buono; solo il frutto che corrisponde alla natura dell’albero e alla sua vocazione secondo Dio conferma l’albero come veramente buono (Mt. 7,16-20; Lc. 6,43-45).

Con questa premessa, il presente articolo propone un percorso biblico-teologico che, muovendo dalla metafora agricola ricorrente nel Tanakh e nelle Scritture Apostoliche, illumini l’errore dell’apparenza e indichi criteri oggettivi per discernere. L’obiettivo non è offrire un vademecum moralistico, ma recuperare il nesso tra «frutto» e «volontà del Padre» (Mt. 7,21), contro ogni riduzione soggettiva della bontà a ciò che ci sembra efficace, inclusivo o utile.

Una comunità locale gremita di migliaia di persone e giovani attivi, per esempio, non è automaticamente sinonimo di un buon frutto: bisogna vedere chi di queste migliaia è veramente nato di nuovo. Il frutto è determinato dalla nuova nascita, non dal numero demografico.


Frutti buoni e alberi veri: il criterio canonico

Il discorso della montagna afferma che un albero buono non può dare frutti cattivi e, simmetricamente, un albero cattivo non può dare frutti buoni (Mt. 7,18). Ma il punto nodale del passo non è la piacevolezza apparente del frutto; è la corrispondenza tra l’albero e ciò che, per natura e vocazione, esso è chiamato a produrre. Yeshua unisce la metafora dei frutti alla denuncia dei falsi profeti «che vengono in vesti da pecore, ma dentro sono lupi rapaci» (Mt. 7,15): la veste può essere ingannevole; il frutto, per quanto sembri buono, va valutato alla luce dell’albero. L’evangelista Luca rende ancora più esplicita la logica:

Non c’è albero buono che faccia frutto cattivo, né albero cattivo che faccia frutto buono; ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto (Lc. 6,43-44)

La riconoscibilità non è affidata al gusto soggettivo, ma alla tipologia: il fico dà fichi, la vite dà uva (Lc. 6,44). Non basta dunque che il frutto sia «buono» in senso generico; deve essere il frutto giusto dell’albero giusto.

Questa corrispondenza è al cuore della parabola della vite e dei tralci: il frutto vero è quello che deriva dal rimanere nella vite, cioè in Yeshua, e nell’osservanza della Sua Parola (Giov. 15,1-8; cfr. v. 10). La «bontà» biblica non si identifica con l’efficienza né con l’impatto sociale, ma con la conformità alla volontà rivelata. Anche il «canto della vigna» in Isaia denuncia l’incongruenza tra la cura del Vignaiolo e i frutti degeneri della vigna: attese giustizia (mishpat) e trovò spargimento di sangue; attese rettitudine (tzedaqah) e udì grida d’angoscia (Is. 5,1-7). Qui il frutto non è valutato per sapore, ma per coerenza etica e cultuale rispetto all’alleanza.

Le Scritture Apostoliche riprendono e approfondiscono il nesso. Paolo distingue «opere della carne» e «frutto dello Spirito»: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé (Gal. 5,19-23). Non sono semplici qualità psicologiche apprezzabili da chiunque; sono il risultato di una vita che cammina «nello Spirito» e «secondo la verità del Vangelo» (Gal. 2,14; 5,16.25). Il criterio non è dunque l’apprezzabilità sociale del frutto, ma la sua origine: se procede dalla comunione con il Messia e dall’adesione alla Parola, allora è «buono» nel senso biblico; se è prodotto da strategie, carismi sganciati dalla verità, o retoriche seduttive, resta apparente, contro natura (Ef. 5,8-11; Flp. 1,9-11).


Genesi 3 come paradigma dell’illusione

Il racconto della trasgressione nel giardino fornisce la matrice archetipica dell’inganno. La donna vede che il frutto dell’albero della conoscenza è «buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare esperienza» (Gen. 3,6). Le tre qualificazioni — alimentare, estetica, eseprienziale — definiscono un «bene» percepito, amplificato dal discorso del serpente, ma in radicale contraddizione con la Parola di Dio (Gen. 2,16-17; 3,1-5). L’esito non è sazietà né sapienza teofila, ma vergogna, paura, rottura relazionale, esilio (Gen. 3,7-24). Il frutto, buono all’apparenza, si rivela tossico per lo «stomaco» dell’alleanza.

La scena mette a nudo la struttura dell’autoinganno spirituale: si confonde la bontà percepita con la bontà secondo Dio; si confonde il gusto con la verità. Non solo: si confonde l’«acquisire» sapienza con il «ricevere» sapienza. Nella prospettiva biblica, la sapienza è dono che si accoglie nel timore del Signore (Prov. 1,7; 9,10), non bottino da strappare alla Parola. Applicata al discernimento dei «frutti», questa dinamica ci ammonisce: ciò che appare buono — anche se porta conoscenza, successo, consenso e prosperità — può essere contro natura se viola un divieto posto per custodire la vita (Gen. 2,17). La bontà vera è inseparabile dall’obbedienza (1 Sam. 15,22).


Segni, successi e «frutti» che seducono

Il Tanakh riconosce la possibilità che un profeta annunci «segni e prodigi» e che questi si compiano, pur conducendo il popolo ad altri dèi: in tal caso, non si deve ascoltarlo (Deut. 13,1-5). Il criterio decisivo non è il prodigio in sé, ma la fedeltà all’alleanza. Analogamente, Geremia smaschera i profeti che «rasserenano» il popolo con parole di pace quando non c’è pace (Ger. 6,14; 23,16-32). Gioele e Michea distinguono il vero «soffio» profetico dalla menzogna (Mi. 3,5-8; cfr. Ez. 13).

Le Scritture Apostoliche riprendono l’allarme: Yeshua avverte che sorgeranno falsi messia e falsi profeti, capaci di «grandi segni e prodigi» per sedurre, se possibile, anche gli eletti (Mt. 24,24; cfr. 2 Tess. 2,9-12). Paolo denuncia «pseudo-apostoli, operai fraudolenti» che si travestono da apostoli del Messia; e «non c’è da meravigliarsi: anche satana si traveste da angelo di luce» (2 Cor. 11,13-15). Il travestimento implica la produzione di «frutti» accattivanti: eloquenza, retorica, apparente potenza, risultati visibili. Ma la loro origine non è la verità che è nel Messia (Ef. 4,21), bensì una sapienza «terrena, psichica, diabolica» che, pur vantando «buoni esiti», genera invidie, contese, disordine (Giac. 3,14-16).

Questa prospettiva ribalta l’argomento oggi ricorrente: «Guardate i frutti e capirete chi siamo». Certo, «dai frutti li riconoscerete» (Mt. 7,16), ma solo se i frutti sono quelli propri dell’albero: fedeltà dottrinale, obbedienza pratica, amore che «gode della verità» (1Tim. 6,3; 2 Giov. 9; 1 Giov. 2,3-6; 1 Cor. 13,6). Segni, successi, impatti sociali possono coesistere con deviazioni decisive. Non basta dunque un bene percepito: occorre il bene conformato alla Parola.


Discernimento nello Spirito: esaminare tutto, ritenere il bene

Il discernimento non è sospetto permanente né fideismo cieco; è l’arte di esaminare e approvare ciò che è conforme a Dio. Le Scritture Apostoliche sono esplicite: «Esaminate ogni cosa, ritenete il bene» (1 Tess. 5,21); «Non crediate a ogni spirito, ma provate gli spiriti per vedere se sono da Dio» (1 Giov. 4,1). Il parametro della prova è duplice: confessione cristologica retta e obbedienza concreta (1 Giov. 4,2-3; 2 Giov. 9; Giov. 14,15). Gli abitanti di Berea sono lodati perché vagliano alla luce delle Scritture ciò che ascoltano, quotidianamente (At. 17,11). L’«amore che abbonda in conoscenza e in ogni discernimento» permette di «approvare le cose migliori» (Flp. 1,9-10).

Questo esame è opera dello Spirito, non mera critica intellettuale. Lo Spirito «guida alla verità tutta intera» (Giov. 16,13), illumina l’intelligenza della Scrittura (1 Cor. 2,12-15), educa i sensi a distinguere il bene dal male (Eb. 5,14). Ma proprio perché è lo Spirito del Messia crocifisso e risorto, non ratifica ciò che smentisce la Parola scritta (2 Tim. 3,16-17). La differenza tra «amore» evangelico e sentimentalismo è qui: l’amore «si rallegra della verità» (1 Cor. 13,6) e cammina «nella verità» (3 Giov. 3-4). Perciò la retorica dell’«inclusione» o della «tolleranza» non può diventare paravento per svuotare i comandamenti. Quando la Scrittura dice «questa cosa non si fa», l’obbedienza non cerca scappatoie (Deut. 12,32; Giov. 14,21; 1 Giov. 5,3). Obbedire non è legalismo, ma libertà dalla menzogna (Giov. 8,31-32).


Contro natura: quando il frutto non corrisponde alla vocazione

Torniamo alla metafora: se un fico producesse mele dolcissime, resteremmo stupiti; ma il problema non è la dolcezza, è l’incongruenza. Nella Bibbia l’immagine del fico è densa: simbolo d’Israele e della prosperità (1 Re 4,25; Mi. 4,4), ma anche figura del giudizio quando non porta frutto (Ger. 8,13; Os. 9,10.16). Yeshua maledice il fico sterile non per capriccio, ma come segno profetico contro l’ipocrisia che promette e non mantiene (Mc. 11,12-14; Mt 21,18-19). La parabola del fico infruttuoso, ancora, mostra la pazienza del padrone e l’urgenza di un frutto conforme (Lc. 13,6-9).

Che significa, in termini ecclesiali, «contro natura»? Significa presentarsi come «albero del Vangelo del Messia» e produrre frutti che, per quanto commendevoli, riflettono un «Vangelo diverso». Un ministero può esibire filantropia, creatività, dialogo, ampliamento di audience; ma se relativizza l'adorazione di Yeshua, sminuisce la croce, dissolve il peccato in psicologia e immaturità spirituale, muta il pentimento in mera crescita personale, ridefinisce l’«amore» sganciandolo dai comandamenti, allora quei frutti non sono fichi, per quanto dolci (Giov. 14,15; Lc. 24,46-47; Rom. 3,23-26). Paolo parla di quanti «professano di conoscere Dio, ma lo rinnegano con le opere» (Tt. 1,16): l’incongruenza tra nome e frutti. Giacomo distingue la sapienza «che viene dall’alto» — pura, pacifica, conciliante, piena di misericordia e di buoni frutti — dalla sapienza che, pur vantando risultati, produce disordine (Giac. 3,17-18). Non tutto ciò che «riesce» è secondo Dio.

Il criterio decisivo lo enuncia Yeshua subito dopo l’immagine degli alberi:

Non chiunque Mi dice: “Kyrios, Kyrios” entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre Mio che è nei cieli (Mt. 7,21)

Non bastano carismi spettacolari: «Abbiamo profetato [...] cacciato demòni [...] compiuto molte opere potenti nel Tuo Nome?» (Mt. 7,22). La risposta è tagliente: «Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da Me, voi che operate l’iniquità» (Mt. 7,23). Qui il «frutto» è valutato non per potenza percepita, ma per obbedienza. Il profeta che «ha successo» ma conduce al compromesso idolatrico — oggi spesso culturale o ideologico (... queste cose non sono più per il nostro tempo ...) — ricade nella diagnosi di Deut. 13,1-5.


Parola e Spirito: la guida insostituibile del discernimento

Senza la Scrittura e senza lo Spirito, il discernimento resta impossibile. «La Tua Parola è una lampada al mio piede e una luce sul mio sentiero» (Sal. 119,105); «La Parola di Dio è vivente ed efficace, più tagliente di qualunque spada a doppio taglio» (Eb. 4,12). La comunità non è libera di inventare criteri a piacere; è chiamata a «perseverare nella dottrina degli apostoli» (At. 2,42), a ritenere «il modello delle sane parole» (2 Tim. 1,13), a «combattere strenuamente per la fede trasmessa ai santi una volta per sempre» (Gd. 3). Il compito dello Spirito non è produrre novità che smentiscono la Parola che Lui ha ispirato, ma applicare quella Parola a situazioni nuove, conservandone la verità (Giov. 16,13-15; 14,26).

Per questo la via concreta resta quella che già gli antichi hanno percorso: aprire la Bibbia e chiedere allo Spirito. Aprire la Bibbia significa leggere canonicamente, lasciando che i testi interpretino i testi (Lc. 24,27), e non isolando versetti a sostegno di interessi del momento. Significa che il Tanakh e le Scritture Apostoliche si illuminano a vicenda: la vigna di Isaia e la vite di Giovanni, il fico profetico e la parabola evangelica, Deuteronomio sui falsi profeti e Matteo 7 sui «Signore, Signore». Chiedere allo Spirito significa domandare sapienza per «approvare le cose eccellenti» (Flp. 1,9-10), lasciandosi correggere, disposti a cambiare rotta quando la parola smentisce ciò che abbiamo chiamato «amore», «tolleranza», «unità» (Prov. 3,5-6; Giov. 7,17). Lo Spirito non è il sigillo delle nostre preferenze, ma il Maestro che ci conforma al Figlio (Rom. 8,14.29).


Illusioni ricorrenti: quando la bontà apparente copre l’iniquità

La storia della salvezza registra ciclicamente illusioni spirituali. In epoca monarchica, culti sincretistici coesistevano con il linguaggio di YHWH: «Questo è il Tempio di YHWH!» proclamavano, ma il Tempio era diventato spelonca di ladri (Ger. 7,1-11; cfr. Mt. 21,13). Al tempo di Amos, sacrifici e canti abbondavano, ma mancavano la giustizia e il diritto (Am. 5,21-24). Ai giorni di Isaia, il popolo si avvicinava con la bocca, ma il cuore era lontano (Is. 29,13; cfr. Mt. 15,7-9). Nel Nuovo Patto, le lettere alle assemblee di Apocalisse mostrano comunità operose, perseveranti, persino dottrinalmente vigilanti, ma che avevano abbandonato il principio dell'amore, tolleravano dottrine corruttrici, o si illudevano di essere ricche e non vedevano la loro miseria (Ap. 2–3). In tutti i casi, non mancavano «frutti» visibili; mancava la conformità integrale alla volontà del Signore.

L’illusione più sottile oggi consiste nel ritenere che parole come «amore», «inclusione», «dialogo» possano sostituire la norma della verità. La Scrittura non oppone amore e verità: comanda di «dire la verità nell’amore» (Ef. 4,15) e definisce l’amore come cammino nei comandamenti di Dio (2 Giov. 6; 1 Giov. 5,2-3). Chiamare «amore» ciò che contraddice i comandamenti non è carità, è menzogna. Analogamente, «unità nella diversità» non legittima un sincretismo dottrinale: l’unità cristiana è «nell’unica fede» (Ef. 4,4-6), non nella somma delle opinioni. Il «dialogo» non giustifica l’abiura pratica di verità rivelate: Pietro e Giovanni ascoltano le autorità ma «non possono» tacere ciò che hanno visto e udito (At. 4,19-20). Quando la Parola fissa un limite, quel limite tutela dalla morte (Gen. 2,17; Deut. 30,15-20).


La verifica concreta: dottrina, etica, culto

Come si riconosce, allora, se il frutto corrisponde all’albero? Le coordinate bibliche suggeriscono tre assi intrecciati.

  • Primo, la dottrina: «Chi va oltre e non rimane nella dottrina del Messia, non possiede Dio» (2 Giov. 9); «Se qualcuno insegna una dottrina diversa e non si attiene alle sane parole del Signore nostro Yeshua Messia e alla dottrina che è secondo pietà, è accecato dall’orgoglio» (1 Tim. 6,3-4). Non basta il lessico cristiano o evangelichese delle assemblee neo-pentecostali; occorre il contenuto apostolico (Gal. 1,8-9; 2 Pt. 2,1).
  • Secondo, l’etica: «Sia allontanato da voi chi si dice fratello ed è [...]» e Paolo elenca condotte incompatibili (1 Cor. 5,11); «Senza la santificazione nessuno vedrà il Signore» (Eb. 12,14). Le opere rivelano la fede (Giac. 2,14-26), ma non qualunque opera: quelle «preparate da Dio perché camminassimo in esse» (Ef. 2,10).
  • Terzo, il culto: non ogni offerta è gradita; il sacrificio gradito è «spirito contrito», obbedienza, culto in spirito e verità (Sal. 51,17-19; Giov. 4,23-24; Rom. 12,1-2).

La triade dottrina-etica-culto non è un check-list moralista; è la fioritura dell’albero innestato nel Messia (Giov. 15,5).

Un esempio paradigmatico è Saul: offre sacrifici per "salvare la situazione", ma disobbedisce; «l’obbedienza vale più del sacrificio» (1 Sam. 15,22). Il «frutto» dell’efficienza tattica non giustifica l’albero dell’insubordinazione. Un altro è Anania e Saffira: generosità apparente, menzogna sostanziale (At. 5,1-11). O la comunità di Corinto: carismi abbondanti, amore carente, confusione nel culto, linguaggi incomprensibili spacciati per manifestazioni dello Spirito, tolleranza del peccato (1 Cor. 1,7; 5,1-2; 11,17-22; 14,33.40). In tutti i casi, il problema non è l’assenza di «risultati», ma la non conformità al nome dell’albero.


La pazienza e la severità di Dio: tra cura e taglio

La metafora agricola include la pazienza del vignaiolo e la realtà del taglio. Il padrone della vigna concede tempo e cure perché il fico porti frutto; ma se non ne porta, verrà tagliato (Lc. 13,6-9). Un fico che genera il frutto sbagliato non scampa alle fiamme, perché o è un fico disfunzionale e genera frutti contro natura, oppure è un albero illuso come quei pazzi affetti da megalomania che si sentono Napoleone Bonaparte. La vite vera ha tralci che il Padre «pota» perché portino più frutto e tralci che «toglie» perché non rimangono (Giov. 15,2.6). Questa dialettica corregge due derive: da un lato, l'iper-perfezionismo che condanna subito senza prendersi cura dell'altro che sbaglia; dall’altro, l’indifferenza che confonde pazienza con approvazione. La pazienza di Dio è spazio di conversione (Rom. 2,4), non un "Dio tace quindi accosente" né licenza per perseverare nel frutto «contro natura». La severità non è capriccio, è giustizia che custodisce la vita dell’alleanza (Rom. 11,22).

Applicata alla verifica ecclesiale, questa dialettica ci chiama a entrambe le mani: cura e verità. Si accompagnano persone e comunità alla luce della Parola, si intercede, si pota ciò che ostacola; ma si mantiene chiaro che l’albero deve produrre, ma il suo frutto, non un frutto buono qualsiasi purché sia "buono". Il discernimento è pastorale proprio perché è teologico: ama la persona e difende l’alleanza.


Conclusione

Se il frutto buono, da solo, non basta, è perché la bontà evangelica non coincide con il nostro «buon sapore», ma con la volontà del Padre. Viviamo in un tempo in cui molte cose «piacciono»: progetti, parole, gesti, campagne, esperimenti pastorali. Alcune sono davvero opera dello Spirito; altre sono mele dolci su un albero che si presentava come fico. La domanda da riportare al cuore della Kehillah non è: «È piacevole? Funziona? Riunisce?», ma: «È conforme al nome dell’albero? È frutto della vite vera? È obbedienza filiale alla Parola?». Aprire la Bibbia e chiedere allo Spirito non è uno slogan devozionale; è la postura di chi rifiuta l’autoinganno di Genesi 3 e sceglie la via stretta del Figlio (Gen. 3,6; Mt. 7,13-14).

Per alcuni, questo invito suonerà scomodo: costringe a rivedere prassi che abbiamo battezzato come «amore» o «inclusione» ma che, alla prova dei comandamenti, si rivelano altro (1 Giov, 5,3; 2 Giov. 6). Per altri, sarà liberante: toglie il peso di dover inseguire risultati per sentirsi «buoni» e riporta alla gioia semplice del rimanere nel Messia, da cui il frutto matura a suo tempo (Giov. 15,5; Sal. 1,3). In ogni caso, il discernimento non è un optional per specialisti, ma un dovere di tutta l’assemblea: «Esaminate ogni cosa, ritenete il bene» (1 Tess. 5,21). Chiediamo quindi che lo Spirito affini in noi i sensi, perché non scambiamo il lucore del serpente per luce del Signore (2 Cor. 11,14), né la dolcezza dell’istante che poi appassisce per il nutrimento che rimane per la vita eterna (Giov. 6,27). E se, guardando all’albero che siamo, scopriamo mele su rami di fico, non giustifichiamoci con il sapore: torniamo alla radice. Qui, e solo qui, il frutto sarà davvero buono.

Condividi articolo
Etichette
Archivio
Accedi per lasciare un commento