Introduzione
Ho constatato nei miei anni di studio dell'ebraico biblico, che molte delle parole utilizzate nelle traduzioni italiane della Bibbia sono cariche di connotazioni moderne che non riflettono accuratamente il significato originario dei termini ebraici. Questo slittamento semantico ha spesso portato a interpretazioni che, pur essendo culturalmente rilevanti per il lettore contemporaneo, risultano distanti dalle intenzioni degli autori biblici e dal contesto culturale in cui i testi furono scritti. Interpretare correttamente la lingua ebraica biblica richiede dunque uno sforzo per sgombrare il campo da queste sovrastrutture e recuperare l'autenticità del messaggio originario.
In ambito biblico, termini come «sacerdote», «santo», «preghiera», «salvezza» e molti altri sono comunemente riconosciuti come parole "bibliche". Tuttavia, molte delle parole utilizzate nelle traduzioni ufficiali delle Scritture, soprattutto in lingue moderne come l'Italiano, sono state caricate di connotazioni che non rispecchiano l'originario contesto culturale ed etimologico dell'ebraico biblico.
Sacerdote e Kohen
Prendiamo ad esempio il termine «sacerdote». Nel nostro immaginario contemporaneo, associamo questa figura a un leader esclusivamente religioso, un intermediario tra l’uomo e il divino che si occupa di pratiche e rituali sacri. Di certo non ci verrebbe mai in mente di definire un "ispettore edile" come sacerdote, giusto? Tuttavia, nella cultura biblica ebraica, il termine corrispondente, כהן (kohen), assumeva un significato molto più vasto. Anche se tradotto comunemente come sacerdote, il kohen era una figura poliedrica, non limitata alla sfera strettamente religiosa, ma coinvolta in molteplici ruoli amministrativi, incluso quello di ispettore edilizio e sanitario.
Un esempio concreto di questa funzione si trova in Lev. 14,39, dove il kohen è incaricato di verificare l’integrità di una casa potenzialmente infestata da muffa e funghi, denominati tzara'at (a volte tradotto impropriamente con «lebbra»):
Il settimo giorno, il kohen vi ritornerà; e se, esaminandola, vedrà che la macchia si è allargata sulle pareti della casa, il kohen ordinerà che se ne rimuovano le pietre sulle quali è la macchia e che si gettino in luogo immondo, fuori dalla città.
Questo esempio evidenzia come il ruolo del kohen si estendesse ben oltre quello di semplice sacerdote, rendendolo una figura amministrativa chiave nella comunità. Per tale ragione, il termine kohen andrebbe tradotto «sacerdote» solo nei contesti cultuali, mentre in contesti non cultuali andrebbe reso «amministratore», riflettendo meglio il ruolo ampio e complesso di questa figura che, è bene sottolineare, anche se agisce al di fuori dal contesto cultuale il suo coinvolgimento è pur sempre di carattere spirituale. La parola ebraica kohen proviene infatti dalla radice כן (kn), che significa «base» o «fondamento». I kohanim erano dunque la «base» su cui si fondava la vita comunitaria e religiosa, in quanto amministratori della comunità.
Preghiera, Tefillah
Un termine particolarmente significativo da approfondire è תפילה (tefillah), solitamente tradotto come «preghiera» nelle versioni canoniche della Bibbia. Nella nostra concezione contemporanea, la preghiera è generalmente intesa come un atto di dialogo con Dio. Tuttavia, nell'ebraico biblico, la parola tefillah deriva da un verbo che significa «suplicare» o «intercedere», indicando una sfumatura semantica ben più specifica rispetto all'ampio significato che attribuiamo al concetto di preghiera.
Se, per esempio, esaminiamo il Sal. 6,10 nell'originale ebraico, vediamo che il termine utilizzato è proprio tefillah, tradotto comunemente come «preghiera». Tuttavia, il termine preghiera, così come lo intendiamo, non riesce a rendere appieno la complessità delle diverse forme di interazione con il divino presenti nel Tanakh. Come ho già illustrato in un altro articolo, l'ebraico antico impiega una molteplicità di termini per indicare specifiche tipologie di preghiera, ognuna con un proprio contesto e funzione.
Nel caso di tefillah, il significato più appropriato sarebbe «supplica», poiché non tutte le preghiere sono necessariamente suppliche. La traduzione italiana preghiera, pertanto, risulta generica e non riflette adeguatamente l'intensità e la specificità dell'atto di supplica che il termine ebraico tefillah intende esprimere nel Salmo. Di conseguenza, una traduzione più precisa dovrebbe tenere conto del contesto e della varietà di sfumature presenti nell'ebraico biblico, rendendo evidente il significato originale del termine.
YHWH ha ascoltato la mia supplica/intercessione, YHWH accoglierà la mia supplica/intercessione.
Conclusione
Credo fermamente che sia giunto il momento di liberare la lingua ebraica biblica dalle incrostazioni linguistiche e concettuali che, nel corso dei secoli, si sono depositate su di essa, oscurandone il significato originario. Restituire alle parole il loro senso autentico, radicato nelle prospettive culturali e teologiche degli antichi autori, è un atto essenziale per riappropriarci della profondità e della ricchezza della Bibbia. Solo così potremo riscoprire il vero messaggio che esso intende trasmettere.
Allo stesso modo in cui le "squame" cadono dagli occhi, dobbiamo impegnarci a rimuovere questa "maschera" imposta dalle interpretazioni estranee, recidendo ogni traccia della nostra precedente comprensione teologica distorta. Soltanto allora saremo meglio disposti ad ascoltare con discernimento e a camminare con rettitudine lungo il sentiero della verità biblica.