Introduzione
Il tema dell’offerta sacrificale percorre tutta la Bibbia come un filo rosso che intreccia ritualità e sincerità del cuore. Nella Torah (Levitico) Dio stabilisce un complesso sistema di sacrifici per purificare il peccato e ristabilire la comunione con Lui. Nell’Haftarah (Is. 43—44), il profeta condanna gli idoli e proclama che ciò che Dio vuole è lode autentica, non riti vuoti. Nella Besorah di Mt. 5,23-30, Yeshua riprende queste idee: si possono portare offerte all’altare solo se il cuore è già riconciliato, e perfino l’osservanza liturgica deve piegarsi alla giustizia e alla purezza interiore.
Qual è dunque il nesso profondo che tiene insieme questi testi? Quale parola o concetto può illuminare insieme Mosè, Isaia e Yeshua? Scopriamo insieme come il sacrificio vero sia lo stesso, tanto per l’ebreo devoto quanto per il credente nel Messia Yeshua: mettere il cuore sull’altare.
Parashah (Levitico 1,1—5,26)
Il linguaggio del sangue
Nel libro del Levìtico, subito dopo l’Esodo, Dio insegna a Mosè il rituale dei sacrifici per avvicinare il popolo alla Sua santità. L’apertura di questo “Codice Sacrificale” suona come un invito:
YHWH chiamò Mosè e gli disse: “Parla ai figli d’Israele e riferisci loro: quando alcuno di voi vorrà portare un’offerta a YHWH, offrirete bestiame grosso o minuto.
Mosè istruisce così la comunità su come fare qorban (termine ebraico che significa letteralmente «ciò che avvicina», un’offerta che riavvicina l’uomo a Dio). I sacerdoti di Aronne agiscono col fuoco, il sangue sparso e la carne bruciata sull’altare, in un rito vistoso. Ma accanto alla procedura esteriore, la Torah inserisce subito la dimensione interiore: quando c’è colpa, il peccatore deve innanzitutto confessare il suo errore prima di presentare il sacrificio. Le leggi di Lev. 5,5-6 ammoniscono infatti:
Quando uno dunque si sarà reso colpevole di una di queste cose, confesserà il peccato che ha commesso; porterà a YHWH il sacrificio di asham [colpa] [...] come sacrificio espiatorio e il sacerdote farà per lui l’espiazione del suo peccato.
In altre parole, il peccato non viene nascosto dietro al rito: la persona deve riconoscere l’errore e poi solo allora presentare l’offerta. Solo così il rito diventa vero ulteriore avvicinamento a Dio.
Il quadro che emerge in Levitico è chiaro: Dio desidera che ogni atto sacrificale rifletta un cuore sincero. L’atto sacro — olocausto, comunione, oblazione — è accompagnato dalla consapevolezza della propria fragilità e dal pentimento. Nel contempo, le liturgie riflettono il carattere collettivo della santità: la comunità è chiamata ad essere un popolo santo, e l’atto del singolo ha ricaduta sul corpo nazionale. Ma soprattutto, nel gudaismo biblico il sacrificio non è un mero obbligo liturgico: è un segno esteriore di una realtà interiore. Del resto, la parola ebraica qorban viene dalla radice qarav, «avvicinare»: l’offerta riavvicina il fedele al Signore. Il professor Bernard Bamberger ricorda che, fin dall’inizio, la tradizione ebraica impegnò i bambini nell’apprendimento del Levitico perché — diceva —
i giovani bambini puri dovrebbero apprendere la storia dei sacrifici che vennero offerti in purezza.
Latte spirituale
È da qui che nasce il vero significato del “latte spirituale” menzionato dall’apostolo Paolo (1 Cor. 3,2; Eb. 5,12-14). Nelle chiese cristiane, questo latte viene spesso inteso come l’insieme delle dottrine fondamentali della fede: la salvezza, il ravvedimento, la Trinità, la divinità di Yeshua, ecc. Ma secondo la visione biblica ed ebraica, il latte spirituale è proprio ciò che rende possibile comprendere questi concetti: è il fondamento, non il risultato.
E quale fu il primo latte che il popolo d’Israele ricevette? Non parabole, non miracoli, ma il Levitico, con il suo linguaggio cruento di sangue, fuoco, olocausti e offerte per il peccato. È da queste pagine che si apprende l'ABC, la grammatica spirituale della redenzione. I bambini ebrei iniziano da lì non per caso, ma perché senza Levitico non si comprende né il Messia crocifisso né la potenza della Sua offerta eterna (Eb. 9,11-14; Lev. 1,1-4). Solo partendo dall’altare si può riconoscere il Golgota. Solo conoscendo il senso del sacrificio si può comprendere il Salvatore sacrificato.
In fondo, anche il sacerdote nel tempio era visto come colui che «fa salire» davanti a Dio l’offerta del popolo (Lev. 2,1‑2), ma questo può avvenire solo se l’anima del sacrificante è limpida. Infatti la Torah considera il sacrificio come un atto personale di dedizione: in ebraico, l’uomo è chiamato nefesh (anima) proprio quando offre qualcosa; ogni sacrificio comporta una parte di sé offerta a Dio.
Infine, nella Torah l’offerta è prescritta come segno formale di adorazione, ma con lo scopo di educare il popolo a un vero incontro con Dio. Se il rito fosse puramente meccanico, perderebbe senso; per questo Dio include l’esame di coscienza. Per il fedele ebreo ogni sacrificio richiede di «dare tutto sé stesso: cuore e anima a questo gesto». Questo stabilisce la prima chiave interpretativa: il rito non è fine a sé stesso, ma strumento di una relazione.
Haftarah (Isaia 43,21–44,23)
Lode o idoli: il cuoto che Dio rifiuta
Il profeta Isaia riprende la stessa idea con forte accento spirituale. Il popolo di Israele è chiamato a riconoscere che Dio non è soddisfatto di un culto di circostanza o di idoli sterili. Al centro della sua denuncia sta appunto il sacrificio ipocrita: Dio fa dire a Israele tramite Isaia:
Tu non Mi hai portato l’agnello dei tuoi olocausti e non Mi hai onorato con i tuoi sacrifici [...] ma tu Mi hai tormentato con i tuoi peccati, Mi hai stancato con le tue iniquità.
L’immagine è eloquente: come un amante rifiuta doni costosi di fronte a un tradimento, così Dio rifiuta offerte quando il peccato pesa sul cuore del fedele. In Is. 43,21 si annuncia già il popolo-risposta: «Il popolo che Io Mi sono formato proclamerà le Mie lodi»; il cuore del popolo è fatto per adorare e lodare il suo Dio, non per obbedire cieco a forme vuote. Invece Israele spesso ha agito come un coniuge infedele: nel versetto 22 Isaia incalza Giacobbe/Israele, «Tu non Mi hai invocato, Giacobbe, anzi ti sei stancato di Me, Israele!». Dio non vuole il sacrificio che si sostituisce al vero richiamo a Lui: se il rapporto è logorato dal peccato, le offerte sul tumulo o al tempio diventano un peso insopportabile per Dio.
Allo stesso tempo, Isaia esorta a tornare alla santità originaria con un tono di speranza esultante:
Cantate, o cieli, perché YHWH ha operato! Giubilate, o profondità della terra! [...] Poiché YHWH ha riscattato Giacobbe e manifesta la Sua gloria in Israele!
Israele, popolo creato per lodare il suo Dio, è invitato a ringraziare con tutta la creazione il compimento del piano divino di salvezza (il riscatto messianico di Giacobbe). L’Haftarah quindi contrappone la lode autentica e gioiosa al vuoto dei sacrifici senza cuore. Non a caso, giusto prima del nostro testo, Isaia si chiede:
A che Mi servono le vostre molteplici offerte? YHWH si è saziato degli olocausti di montoni [...] non desidera il sangue dei buoi e degli agnelli (Is. 1,11)
Il messaggio è chiaro: Dio vuole la mia fedeltà più dell’agnello grato.
In sintesi, Isaia amplifica ciò che Levitico già insegnava ma lasciava al cuore del fedele: il rituale dev’essere accompagnato da una vera fedeltà. L’adorazione profonda nasce da un popolo che conosce la propria identità (mio servo, mio figlio) e accoglie la redenzione. La critica agli zabach (sacrifici) senza etica evita l’idolatria del rito in sé: «Qual è la divinità simile a Me, che dichiara fin dall’inizio ciò che avverrà?» (Is. 44,7). Dio, Unico, non tollera doppiezza: o è tutto Suo cuore o il sacrificio è nullo.
Besorah (Matteo 5,23-30)
Altare interrotto: riconciliazione prima dell'offerta
Yeshua riprende questo insegnamento di priorità del cuore sul rito nel suo celebre Sermone sul Monte. Pur essendo sotto la Legge di Mosè, Egli eleva lo spirito della Torah: dice ai Suoi discepoli che l’obbedienza religiosa deve passare attraverso le relazioni umane e la purezza interiore. Così legge Mt. 5,23-24:
Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; poi vieni a offrire la tua offerta.
In questo modo, l’offerta liturgica (l’eredità di Vayqra) viene subordinata alla riconciliazione personale: prima la pace, poi il sacrificio! Yeshua non introduce una nuova legge, ma ne mostra la pienezza: il comandamento «non assassinare» è stato compiuto se il fratello è visto come nemico in cuore. Allo stesso modo, «non commettere adulterio» non si ferma al corpo: chiunque «guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore». Perfino il gesto rituale di portare l’offerta al tempio è visto come inutile se il cuore è diviso.
Con queste parole Yeshua entra nel vivo della legge morale: l’esteriorità dell’offerta all’altare è significativa solo se l’interiorità è sana. Il Suo linguaggio forte (meglio perder un occhio che andare nella Geenna a causa del peccato) è voluto per far «peggiorare» il discepolato rispetto ai farisei; insegna che la teshuvah (il pentimento) deve essere più profonda della forma. Così le Scritture Apostoliche risuonano con la Torah e Isaia: in Lc. 12,58 (accennato nei commenti di Matteo) Yeshua ricorda che la riconciliazione terrena è misura della riconciliazione divina. Ebrei e cristiani convergono nel capire che un Dio geloso della Giustizia attende dal Suo popolo non il sangue puro di vittime, ma la «purezza del sacrificio» (misericordia e giustizia, come disse Osea; Mt. 9,13, non incluso ma parallelo).
Da ultimo, in Mt. 5,27-30 Yeshua mostra come ogni precetto sia compiuto nella persona: «chi guarda con desiderio» commette adulterio nel cuore. Quindi non serve «impedire» l’adulterio con dei sacrifici, ma tagliare le concupiscenze dalla radice. Nel breve tratto del discorso, il solo “sacrificio” letterale rimasto è l’auto-sacrificio del fedele che si stacca dal peccato. È come se dicesse:
se sacrificate la coscienza del prossimo, allora l’altare non è altro che pietra. Ma se sacrificate la volontà di peccare, la vostra vita diventa altare spirituale. Questo ribadisce il principio veterotestamentario: Dio non è servito dalle routine, ma dal cuore rinnovato.
Un unico spirito, un unico sacrificio
C’è dunque un unico, stupendo messaggio che unisce la Torah, la Haftarah e la Besorah. In tutti e tre i testi emerge che “offrire” a Dio significa mettere il cuore intero su quell’altare invisibile che è la Sua volontà. Vayqra insegna che persino l’espiazione dei peccati richiede confessione; Isaia grida che le offerte ingannevoli sono detestabili; Yeshua conclude che il dono più grande a Dio è riparare il rapporto umano prima di riprendere qualsiasi culto. In ciascuna porzione la parola chiave è la stessa: sacrificio, offerta, qorban. Ma cosa rende sacrificio il sacrificio? L’elemento comune è il cuore puro.
Il vero sacrificio è quando diamo “tutto ciò che abbiamo”, quando diamo cuore e anima a questo gesto. Questo significa che ogni sacrificio rituale — macellare un ariete o donare grano — è vero solo se viene fatto con dedizione totale. La mitzvah ebraica infatti considera chi offre come nefesh (anima): offrire un sacrificio implica dare un pezzo di sé. Del resto Yeshua stesso insegnò che non è il tempio a rendere puro il fedele, ma il fedele a rendere sacro il tempio. Così, scopriamo che il Dio di Mosè, di Isaia e di Yeshua è sempre lo stesso: vuole abitare tra di noi attraverso cuori umili e giusti, non entità sacrificiali vuote.
Questa verità culmina nel messaggio messianico: il Messia, come Figlio di Israele, compie ogni legge e profezia portando un Altare vivente — il Suo corpo — e invitando i cuori peccatori alla riconciliazione. Matteo ricorda che Yeshua non è venuto ad abrogare la Torah, ma a compierla nel suo intento divino. Nel Messia la Legge e i Profeti trovano il perfezionamento, e così ogni credente, sia ebreo che non ebreo, è chiamato a un’unica offerta suprema: vivere «con tutto il cuore e con tutta l’anima» (Deut. 6,5) nella purezza e nel perdono. In altre parole, l’altare del cuore è dove il peccato viene bruciato, la giustizia è offerta a Dio e il prossimo è abbracciato con amore. Solo un cuore così consacrato può darci la forza di dare a Dio un sacrificio veramente accettabile — un sacrificio che è profumo soave ai Suoi occhi, proprio come decretato fin dal Sinai.
Ascolta la parashah di Daniele Salamone (25/03/2023)