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Battesimo a ebrei e gentili, in nome di...

Perché giudei e timorati di Dio venivano battezzati nel nome di Yeshua, e i pagani con la formula trinitaria?
26 giugno 2025 di
Battesimo a ebrei e gentili, in nome di...
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

La diversità apparente delle formule o confessioni battesimali nelle Scritture Apostoliche — ora «nel nome di Yeshua», ora «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» — ha suscitato molte domande a seguito dell'ultimo articolo pubblicato sull'argomento. In realtà, questa differenza non è una contraddizione, ma riflette un adattamento pedagogico ai destinatari dell’evangelo.

In questo articolo, approfondiremo come la confessione trinitaria fosse rivolta soprattutto ai pagani gentili, mentre l’invocazione del solo nome di Yeshua fosse enfatizzata per gli ebrei (o gentili già “timorati di Dio”), spiegando anche perché alcuni gentili furono battezzati nel solo nome di Yeshua in circostanze particolari. Esaminando il contesto storico-teologico attraverso l'esegesi e le fonti neotestamentarie, vedremo che queste "formule" o confessioni convergono in un’unica verità, utilizzata con sapienza apostolica a seconda del pubblico.


Il mandato di Yeshua ai gentili: insegnare il Dio uno e trino

Prima di ascendere, Yeshua diede ai discepoli il Grande Mandato:

Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli [tutte le nazioni], battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (Mt. 28,19)

Questa è la cosiddetta formula trinitaria, ed è significativa la menzione di «tutti i popoli» (in greco pánta ta éthnē, cioè i gentili). Il Messia stava inviando i Suoi messaggeri in un mondo prevalentemente pagano, dove avrebbero incontrato genti che non sapevano assolutamente nulla dell’unico vero Dio, persone idolatre senza speranza e senza Dio in questo mondo (Ef. 2,12). Pertanto era necessario, nel fare discepoli tra i pagani, insegnare loro chi è il Dio biblico nella pienezza della Sua rivelazione, compresa la Sua natura trinitaria.

Battezzare i convertiti gentili «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» significava dunque inserirli formalmente in una fede radicalmente diversa dal politeismo: li si immergeva nella confessione dell’unico Dio vero, rivelatosi come Padre creatore, come Figlio incarnato (Yeshua il Messia crocifisso e risorto) e come Spirito Santo donato ai credenti. In altre parole, per i gentili il battesimo comportava abbracciare una nuova concezione di Dio, e la formula trinitaria era didattica e catechetica: esplicitava i tre titoli divini fondamentali che il convertito doveva conoscere e accettare. Non sorprende, infatti, che nel Grande Mandato Yeshua, parlando privatamente agli undici apostoli incaricati di battezzare, specifichi esattamente le parole da usare.

Fin dall’epoca apostolica più antica troviamo riscontri che la Kehillah nascente utilizzava la confessone trinitaria soprattutto nell’evangelizzazione dei pagani. Per esempio, la Didaché (o Insegnamento dei Dodici Apostoli, documento del I secolo rivolto ai convertiti dalle nazioni) prescrive:

Riguardo al battesimo, battezzate così: [...] nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in acqua viva (corrente).

Questo mostra come la prassi cristiana per i nuovi convertiti seguisse fedelmente l’ordine di Mt. 28,19. Analogamente, la testimonianza di Paolo a Corinto lascia intendere che il battezzando veniva istruito sulla Trinità: l’apostolo trovò a Efeso alcuni discepoli che conoscevano solo il battesimo di Giovanni e non avevano nemmeno sentito dire che ci fosse uno Spirito Santo; immediatamente Paolo chiese:

In quale battesimo dunque siete stati battezzati? (At. 19,2-3)

L’implicazione è che se fossero stati battezzati cristianamente avrebbero saputo dello Spirito; non si può ricevere il battesimo cristiano senza nemmeno sentire parlare dello Spirito Santo. Questo suggerisce fortemente che la confessione trinitaria fosse già comune tra i cristiani, specialmente nel battesimo di gentili che dovevano apprendere chi è lo Spirito Santo e la Trinità.

Va sottolineato che invocare il nome di una delle Persone divine equivale a invocare tutte e tre, poiché il Dio cristiano è trino-unico. Tuttavia, nel contesto gentile la Kehillah primitiva esplicitava tutte e tre per formare i convertiti nella retta fede. In sintesi, la formula trinitaria fu rivolta dal Messia «a tutte le genti» perché introduceva gli ex-pagani nella pienezza del Dio d’Israele rivelato in Padre, Figlio e Spirito. Era un atto di catechesi inclusa nel rito, che marcava il distacco dagli dèi falsi e l’adesione al Dio unico in tre Persone.


Il battesimo “nel nome di Yeshua” per gli Ebrei (già credenti nel Dio unico)

Diversa era la situazione quando gli apostoli predicavano agli ebrei o a coloro che già conoscevano e adoravano il Dio d’Israele. Questi uditori avevano già monoteismo e rivelazione del Tanakh come base solida: comprendevano già Dio Padre e lo Spirito di Dio. Quello che gli mancava era Yeshua, il Figlio di Dio. Infatti, senza riconoscere Yeshua non potevano essere salvati, come dichiarò Pietro:

In nessun altro c’è salvezza [...] non v’è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, per mezzo del quale dobbiamo essere salvati (At. 4,12)
Dunque, per portare alla salvezza gli ebrei, l’accento andava posto sull’accoglienza di Yeshua come Messia e Signore, l’elemento nuovo che essi dovevano aggiungere alla loro fede nel Dio dei padri.

Per questo negli Atti degli Apostoli vediamo Pietro e gli altri enfatizzare il «nome di Yeshua» quando si rivolgono a giudei e proseliti:

Pentitevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Yeshua il Messia per il perdono dei vostri peccati (At. 2,38)

Qui Pietro parlava il giorno di Pentecoste a Gerusalemme dinanzi a una folla di ebrei devoti venuti da ogni nazione (At. 2,5). Egli non aveva bisogno di ribadire loro chi fosse «il Padre» o spiegare l’identità dello «Spirito Santo» — concetti già noti nella fede giudaica. Il punto cruciale era riconoscere Yeshua come il Messia promesso, Figlio di Dio morto e risorto. Dire «siate battezzati nel nome di Yeshua il Messia» significava chiedere a quegli ebrei di professare finalmente il Figlio oltre al Padre e allo Spirito che già onoravano.

Presentando il Vangelo ai giudei, Pietro ordinò loro di essere battezzati nel nome di Yeshua, cioè di esercitare fede in Colui che avevano crocifisso. Avevano già professato il Padre e lo Spirito, ma dovevano professare il Figlio.

Quest’insistenza sul nome di Yeshua nei battesimi di giudei e credenti del Tanakh emerge ripetutamente negli Atti: è una costante storica. Cigterò alcuni esempi neotestamentari per chiarezza:

  • Pentecoste (Gerusalemme). Pietro predica a giudei e proseliti; questi, compunti nel cuore, chiedono che fare. Pietro risponde di ravvedersi e farsi battezzare «nel nome di Yeshua il Messia», ed è quanto avviene per circa 3000 persone. Qui il battesimo nel nome di Yeshua segna per i figli d’Israele la sottomissione alla signoria di quel Yeshua che avevano rifiutato e crocifisso, riconoscendolo ora come Messia e unica speranza di salvezza. L’enfasi è comprensibile dato che Pietro stava parlando agli stessi ebrei che prima avevano rifiutato Yeshua come Messia.
  • Conversione dei Samaritani (At. 8). I samaritani, pur non essendo giudei ortodossi, veneravano il Dio d’Israele (accettavano il Pentateuco e attendevano il Taheb, un Messia). Filippo predicò loro il Messia e molti credettero. Si nota che «nessuno di loro aveva ancora ricevuto lo Spirito Santo, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Yeshua» (At. 8,16). Anche qui, la formula riferita è nel nome di Yeshua: per quei semi-giudei già monoteisti l’accento era sull’accettare Yeshua come Signore (in seguito Pietro e Giovanni imposero le mani e ricevettero anche lo Spirito, completando così l’esperienza cristiana di questi nuovi fratelli).
  • Paolo. Egli era un ebreo osservante e zelante (Flp. 3,5) che incontrò il Messia risorto sulla via di Damasco. Al momento della sua conversione, Anania gli disse: «Àlzati, sii battezzato e lavato dai tuoi peccati, invocando il Suo nome» (At. 22,16). Paolo quindi venne battezzato invocando il nome di Yeshua, a significare la sua totale sottomissione a Colui che egli aveva perseguitato. Anche qui la fede pregressa in Dio non era in questione (Paolo credeva in YHWH); ciò che importava era invocare Yeshua per la remissione dei peccati.

In tutti questi casi, la confessione «nel nome di Yeshua» non nega affatto il Padre o lo Spirito, ma focalizza l’atto sull’elemento nuovo che il credente doveva confessare. Possiamo dire che, per chi già adorava il Dio unico, battezzarsi nel nome di Yeshua equivaleva a completare la propria fede riconoscendo il Messia e ricevendone la salvezza. È interessante notare che lo stesso Pietro, pur enfatizzando il nome del Messia, riconosce implicitamente la Trinità all’opera:

Ravvedetevi [...] e ciascuno sia battezzato nel nome di Yeshua il Messia [...] e riceverete il dono dello Spirito Santo.

Dunque Padre, Figlio e Spirito sono tutti coinvolti, anche se la confessione verbale sottolinea il Figlio.

Va anche rilevato che nel nome di Yeshua non era probabilmente inteso come una formula tecnica esclusiva, ma come un’abbreviazione per indicare il battesimo cristiano con l’autorità di Yeshua. Uno studio esegetico osserva che negli Atti le frasi “essere battezzati nel nome di Yeshua” spesso descrivono in modo riassuntivo il fatto di ricevere il battesimo cristiano, distinguendolo da altri tipi di abluzioni o battesimi dell’epoca. Per esempio, Paolo dovette specificare a Efeso la differenza tra il battesimo di Giovanni e il battesimo nel nome di Yeshua (At. 19,3-5), perché diversi riti battesimali circolavano (bagni di purificazione giudaici, il battesimo di proselitismo, ecc.). Dire «battesimo in Yeshua» serviva a distinguere il rito cristiano da questi altri — non necessariamente a dare una confessione alternativa. Prova ne sia la Didaché: dopo aver ordinato di battezzare con le parole trinitarie, la stessa opera istruisce che soltanto chi «è stato battezzato nel nome del Signore» può partecipare all’Eucaristia. Evidentemente, «battezzato nel nome del Signore» viene usato come sinonimo del battesimo cristiano appena descritto in formula trinitaria. I primi cristiani dunque impiegavano queste espressioni in modo complementare.


Gentili timorati di Dio: perché anche loro in alcuni casi furono battezzati nel nome di Yeshua

Chiariti i due quadri generali (gentili vs. giudei), resta da comprendere come mai in alcuni episodi biblici dei gentili vennero battezzati solo in Yeshua e non con la confessione trinitaria. Questi casi — lungi dal confutare quanto detto — confermano la stessa logica: quei gentili non erano pagani all’oscuro di Dio, ma “timorati di Dio”, ovvero simpatizzanti o proseliti del monoteismo ebraico. In altre parole, pur essendo etnicamente gentili, avevano già fede nel Dio d’Israele e spesso avevano sperimentato l’azione del Suo Spirito, proprio come i giudei:

Perciò vi faccio sapere che nessuno, parlando per lo Spirito di Dio, dice: “Yeshua è anatema”; e nessuno può dire: “Yeshua è il Signore!” se non per lo Spirito Santo (1 Cor. 12,3)

Essi dunque si trovavano in una condizione simile a quella degli ebrei devoti: conoscevano il Padre (il Dio d’Israele) e avevano una certa comprensione dello Spirito di Dio; ciò che mancava loro era conoscere Yeshua il Messia. Vediamo i principali esempi.

L'eunuco etiope

L’eunuco etiope è descritto in At. 8,27 come un alto funzionario etiope che «era venuto per adorare a Gerusalemme». Ciò suggerisce che egli fosse un timorato di Dio o un proselito, qualcuno che venerava il Dio d’Israele e seguiva alcune pratiche ebraiche. In effetti lo troviamo in viaggio di ritorno, che legge il rotolo del profeta Isaia e cerca di comprenderne il significato (At. 8,28-34). Lo Spirito Santo stesso guidò Filippo ad avvicinarsi a quel carro (At. 8,29) e Filippo, salitovi, gli annunciò la buona novella di Yeshua a partire da Is. 53. Alla prima occasione d’acqua, l’eunuco chiese il battesimo. La Scrittura narra che «Filippo e l’eunuco scesero nell’acqua ed egli lo battezzò» (At. 8,38). Sebbene non sia riportata la formula pronunciata, possiamo dedurre dal contesto che Filippo battezzò quell’uomo nel nome di Yeshua. Perché? Perché l’eunuco già adorava il Dio d’Israele e stava leggendo una Scrittura ispirata dallo Spirito; riconoscendo Yeshua come il Servo sofferente annunciato da Isaia, egli doveva solo dichiarare la sua fede in Yeshua attraverso il battesimo. Non a caso, subito dopo il battesimo, l’eunuco «se ne andò tutto gioioso» (8,39), segno (e frutto) della gioia spirituale data dallo Spirito Santo — che evidentemente aveva già iniziato la Sua opera in lui prima ancora del battesimo (il cuore di quell’uomo ardeva di comprendere la Parola).

In questo scenario, una formula trinitaria dettagliata non era necessaria per insegnargli chi fosse Dio: lo conosceva già; ciò di cui aveva bisogno era essere unito a Yeshua. Possiamo quindi comprendere perché Filippo (egli stesso un ebreo messianico) abbia semplicemente battezzato l’eunuco nella fede nel Messia, senza dover insistere sugli altri elementi della Divinità che l’eunuco già onorava.

Cornelio il centurione

La conversione di Cornelio in At. 10 è paradigmatica. Cornelio era un ufficiale romano «religioso e timorato di Dio con tutta la sua famiglia», che «pregava Dio assiduamente» e faceva del bene al popolo ebraico (At. 10,2). Era dunque un gentile “timorato di Dio” per eccellenza, stimato dagli stessi giudei. Dio gli inviò un angelo in visione per guidarlo a Pietro (At. 10,3-5), e nel frattempo preparò anche Pietro a superare gli scrupoli rituali verso i gentili (la visione della tovaglia dal cielo). Quando Pietro giunse a Cesarea e annunciò il Vangelo a Cornelio, nemmeno finì di parlare che «lo Spirito Santo cadde su tutti coloro che ascoltavano la Parola» (At. 10,44). I credenti ebrei che accompagnavano Pietro rimasero attoniti che «il dono dello Spirito Santo fosse effuso anche sui pagani» (10,45) — li udivano parlare in lingue e glorificare Dio esattamente come era accaduto a loro a Pentecoste.

In questo caso straordinario, Dio stesso attestò la purificazione dei cuori di quei gentili concedendo lo Spirito prima del battesimo (cfr. At. 15,8-9). A quel punto, Pietro fece la logica domanda: «“Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?”». Notiamo il «come noi»: Cornelio e famiglia avevano ormai raggiunto lo stesso punto dei credenti giudei — avevano conosciuto il Padre, ricevuto lo Spirito e creduto nell’annuncio su Yeshua. Nulla vietava loro il battesimo, anzi era necessario completare la loro adesione visibile alla comunità. Pietro dunque ordinò che fossero battezzati nel nome di Yeshua il Messia (At. 10,48). Di nuovo troviamo la formula focalizzata su Yeshua. Cornelio, da buon monoteista, doveva adesso essere incorporato nel Messia Yeshua, riconoscendolo pubblicamente come Salvatore e Signore attraverso il battesimo nel Suo Nome. Non c’era bisogno di “insegnargli” chi fosse Dio Padre o lo Spirito — lo Spirito Santo era già all’opera e il Padre lo aveva già ascoltato e guidato! L’unica cosa necessaria era ratificare la sua fede nel Messia. Pietro agì prontamente in tal senso.

Questo episodio, lungi dal contraddire l’istruzione di Mt. 28,19, conferma che l’enfasi sul nome di Yeshua fu usata quando i gentili erano già vicini al Dio di Israele. Cornelio era praticamente un “giudeo" in quanto circonciso di cuore (Rom. 2,28-29); di conseguenza fu trattato analogamente: Spirito Santo e battesimo in Yeshua, come i primi 3000 di Gerusalemme.

Lidia di Filippi

Un altro esempio notevole è Lidia, la commerciante di porpora di Tiatira, incontrata da Paolo a Filippi (At. 16,13-15). Lidia viene descritta come «una credente in Dio» (in greco sebomene ton Theon, termine usato per i timorati di Dio gentili). Difatti Paolo la trovò in un luogo di preghiera ebraico, nel giorno di Shabbat, in compagnia di altre donne. «Il Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo» (16,14) e subito «dopo essere stata battezzata con la sua famiglia» ella mostrò ospitalità ai missionari. Qui il testo non riporta la formula pronunciata, ma dato lo schema visto altrove, possiamo dedurre che Lidia venne battezzata nel nome di Yeshua, quale completamento della sua precedente fede nel Dio d’Israele. Anche Lidia, pur gentile, era già monoteista e osservava lo Shabbat; aveva solo bisogno di riconoscere il Signore Yeshua e impegnarsi in alleanza con Lui mediante il battesimo. Paolo — lui stesso ex-fariseo convertito — la guidò in questo passo senza doverle fare un corso sulla Trinità: quell’insegnamento di base su Dio non le era estraneo, le occorreva piuttosto la rivelazione del Figlio.

I discepoli di Giovanni a Efeso

In At. 19,1-7 troviamo un ultimo caso interessante. Paolo incontrò a Efeso alcuni uomini che «erano discepoli» (probabilmente affiliati alla predicazione di Giovanni Battista, dato che «conoscevano solo il battesimo di Giovanni»). È possibile che fossero ebrei della diaspora o gentili simpatizzanti: in ogni caso, Giovanni Battista aveva istruito i suoi seguaci a credere in Colui che sarebbe venuto dopo di lui, cioè in Yeshua (At. 19,4). Questi discepoli, però, erano rimasti indietro, ignari del compimento della promessa. Paolo spiegò loro che Yeshua di Nazareth era quel Messia annunciato da Giovanni; essi allora credettero e vennero battezzati immediatamente «nel nome del Signore Yeshua» (At. 19,5). Subito dopo Paolo impose le mani su di loro e lo Spirito Santo scese su di essi con manifestazioni di lingue e profezia (19,6), a suggello della loro piena integrazione nella Kehillah. Notiamo di nuovo: queste persone avevano già un’attesa messianica, uno zoccolo duro di fede nel vero Dio e di pentimento (erano stati battezzati da Giovanni per il perdono dei peccati). Il loro passo decisivo fu riconoscere esplicitamente Yeshua e ricevere il battesimo cristiano nel Suo nome. Solo così poterono sperimentare la pienezza dello Spirito. In tal modo, il nome di Yeshua completa ciò che mancava alla loro preparazione religiosa. Anche loro, seppur gentili di provenienza geografica, erano casi affini ai giudei: avevano il fondamento, dovevano edificare sulla pietra angolare che è il Messia.

Questi esempi mostrano quindi che quando un gentile aveva già una significativa conoscenza e fede nel Dio d’Israele (oltre a segni dell’opera dello Spirito Santo nella sua vita), gli apostoli applicavano lo stesso principio usato con gli ebrei: centravano il battesimo sul nome di Yeshua, poiché era questo l’atto di fede richiesto. Non c’era bisogno di “riconvertirli” a Dio Padre (lo adoravano già) né di convincerli dell’esistenza dello Spirito Santo (ne avevano sperimentato la potenza). Dovevano però confessare e invocare Yeshua per entrare pienamente nell’alleanza di salvezza. È un approccio pastorale straordinariamente saggio: in ogni caso il battesimo veniva amministrato validamente nel Messia, ma l’enfasi e il “catechismo incorporato” variavano a seconda delle esigenze spirituali dei convertendi.


Un’unica fede, un unico battesimo: sintesi teologica

Alla luce di quanto sopra, possiamo affermare con certezza che non vi sono due battesimi diversi, ma un unico battesimo (cfr. Ef. 4,5) compreso sotto due formulazioni o confessioni complementari. L’una – nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo – esplicita la pienezza del Dio Uno e Trino ed è stata affidata da Yeshua per l’evangelizzazione di tutte le genti. L’altra – nel nome di Yeshua il Messia – mette in risalto l’adesione personale al Salvatore ed è impiegata nelle Scritture Apostoliche soprattutto quando si trattava di completare la fede di chi già adorava il Dio unico. In verità, ambedue le confessioni conducono allo stesso punto: il neofita viene immerso spiritualmente nella realtà del Dio vivo e vero, ricevendo remissione dei peccati per i meriti di Yeshua e il dono dello Spirito Santo dal Padre.

Non vi è opposizione dottrinale tra le due espressioni, come alcuni potrebbero superficialmente pensare, perché invocare il nome di Yeshua implica necessariamente riconoscere il Padre che lo ha mandato e lo Spirito che Egli effonde. Viceversa, battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito significa battezzare nella comunione con il Messia, nel Suo corpo che è la Kehillah, attraverso l’opera rigeneratrice dello Spirito Santo. Nome di Yeshua e formula trinitaria non si escludono, ma si implicano reciprocamente. Storicamente, la Chiesa ha ben presto unificato la prassi battesimale, adottando universalmente la formula trinitaria (come attestato dalla Didaché e da tutti i teologi patristici) per assicurare una corretta confessione di fede. Tuttavia, le Scritture conservano memoria dell’importanza del nome di Yeshua, affinché sappiamo che è solo per mezzo di Lui che il battesimo salva — non come rito magico, ma come atto di fede. Il cuore del candidato è la chiave, più che la formula in sé: ciò che conta è che il battezzando creda nel vero Dio e in Yeshua Suo Figlio. Gli apostoli potevano variare l’enfasi verbale, ma non hanno mai variato il significato: quel significato era ed è l’unione salvifica col Dio Trino tramite l’opera redentrice di Yeshua.


Conclusione

In conclusione, la cosiddetta “formula trinitaria” era rivolta originariamente ai pagani per istruirli nel conoscere il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, mentre la formula “nel nome di Yeshua” fu rivolta ai giudei (e ai loro affini spirituali) per spingerli a confessare il Messia Yeshua senza negarne affatto la fede nel Padre e nello Spirito. I pochi gentili battezzati nel nome di Yeshua solo — Cornelio, l’eunuco, Lidia e altri — non fanno eccezione a questa regola, ma la confermano, poiché erano gentili già instradati al Dio d’Israele e andavano portati a compimento nella fede in Yeshua.

Questa strategia apostolica appare ormai limpida e inconfutabile: c’era un solo battesimo, amministrato talora con accento didattico-trinitario, talora con accento cristologico, ma sempre nell’unica fede del Dio di Israele che in Yeshua ha compiuto la salvezza e donato lo Spirito. Comprendendo questo, cadono le apparenti contraddizioni. La Kehillah delle origini non aveva due dottrine battesimali, bensì una sapiente pedagogia missionaria. Come risultato, oggi noi battezziamo tutti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, consapevoli che in quell’unico nome divino è racchiuso il nome glorioso di Yeshua e la pienezza della Divinità. In definitiva, «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef. 4,5-6), nel quale il nome sopra ogni nome — Yeshua — ci unisce per sempre al Padre, per mezzo dello Spirito Santo.

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