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Esegesi ed Ermeneutica: gemelle diverse

Due colonne per comprendere la Scrittura
17 aprile 2025 di
Esegesi ed Ermeneutica: gemelle diverse
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

Viviamo in un’epoca in cui la superficialità domina anche gli ambiti più sacri. Se un tempo la Scrittura veniva accolta con timore, meditata con rispetto e studiata con fatica, oggi spesso viene trattata come un contenitore da cui estrarre frasi motivazionali, slogan religiosi o appigli dottrinali per giustificare tutto e il contrario di tutto. Ma dietro questa deriva spirituale e intellettuale si cela un errore tanto semplice quanto devastante: la confusione tra esegesi ed ermeneutica.

Molti, troppi, leggono la Bibbia saltando a piè pari il primo passo fondamentale: comprendere cosa dice davvero il testo. E così si cade nell’illusione che basti sentire qualcosa nel cuore o trovare un versetto che sembri adatto per fondare una verità. È come costruire un palazzo iniziando dal tetto, senza preoccuparsi delle fondamenta. E quando il vento del dubbio o la pioggia della realtà arrivano, tutto crolla.

È quindi urgente riscoprire la differenza tra esegesi ed ermeneutica, due parole che possono sembrare complesse o riservate agli studiosi, ma che in realtà sono le chiavi d’oro per aprire correttamente le porte della comprensione biblica (dopo la guida dello Spirito Santo). Non è questione di essere “intellettuali”: è questione di essere fedeli. Fedeli al testo. Fedeli al messaggio originale. Fedeli a Dio.

In questo articolo, mi propongo di spiegare in modo chiaro, accessibile e — diremmo — formato da un rigore argomentativo che renda la materia comprensibile anche a chi non possiede strumenti teologici avanzati, cosa significhi fare esegesi, cosa implichi praticare ermeneutica, e perché non possiamo permetterci di confondere i due approcci. Lo faremo con serenità, ma senza indulgenze verso la pigrizia mentale. Non basta leggere: bisogna comprendere. Non basta comprendere: bisogna anche applicare… ma nel giusto ordine.

Perché la Parola di Dio non è un giocattolo spirituale né un supermercato della fede, dove si prende solo ciò che piace. È una rivelazione. E come ogni rivelazione, va prima accolta nel suo contesto (esegesi) e solo dopo portata nel nostro tempo (ermeneutica). Solo così potremo davvero dire di ascoltare Dio, e non solo noi stessi con una voce più santa.


Cos’è l’esegèsi?: l’arte di ascoltare il testo, non se stessi

La parola “esegesi” deriva dal greco exēgēsis, che significa letteralmente “trarre fuori da”. Questo ci suggerisce subito la postura corretta dello studioso della Scrittura: non introdurre nel testo ciò che vogliamo trovarci, ma lasciare che sia il testo stesso a parlare e a rivelarci ciò che contiene. L’esegesi, dunque, non è un’operazione creativa, ma ricettiva. Non è plasmare il messaggio biblico a nostra immagine, ma spogliarci delle nostre proiezioni per accogliere ciò che l’autore ispirato ha effettivamente detto.

Fare esegesi significa chiedersi, con serietà e umiltà:

Cosa intendeva l’autore biblico originario, ispirato da Dio, nel contesto storico, culturale e linguistico in cui scriveva?

È un’operazione che richiede disciplina, pazienza e, sì, anche una certa preparazione tecnica: conoscere la grammatica originale (ebraico, aramaico, greco), saper distinguere i generi letterari (poesia, narrativa, profezia, sapienza, epistole, apocalittica), comprendere la struttura del testo e, soprattutto, tenere conto del contesto.

Il contesto è il cuore dell’esegesi. Senza di esso, ogni versetto può essere tirato da una parte o dall’altra come una coperta corta: lo si forza a dire ciò che non ha mai detto. L’esegesi combatte proprio questa tentazione: non piegare la Scrittura al nostro pensiero, ma piegare il nostro pensiero alla Scrittura, così com’è stata data originariamente.

Ma attenzione: l’esegesi non è un lusso per teologi accademici. È una forma di obbedienza. È l’umiltà dell’interprete che si rifiuta di attribuire a Dio parole che non ha detto. È il primo passo per poter dire di amare davvero la verità. Chi non ha strumenti per leggere i testi antichi può sempre affidarsi a buoni commentari, a fonti affidabili, a guide competenti. Nessuno è esente dall’impegno di comprendere, secondo le proprie capacità, il senso autentico della Parola.

In definitiva, l’esegesi è l’argine che impedisce all’emotività spirituale di diventare tirannia interpretativa. È il guardiano della fedeltà. E senza fedeltà non vi è verità, ma solo un’eco dei nostri desideri travestita da rivelazione.


Cos’è l’ermeneutica?: l’arte di costruire ponti tra ieri e oggi

Se l’esegesi si preoccupa di ascoltare il testo nella sua voce originaria, l’ermeneutica è l’arte di tradurre quella voce in linguaggio vivente per l’uomo di oggi. È ciò che accade dopo aver compreso il senso autentico di un passo biblico: ci si chiede “E ora? Cosa me ne faccio di questo?” – ma attenzione, non in modo arbitrario, bensì in modo responsabile, logico, coerente, spirituale.

Il termine “ermeneutica” deriva dal verbo greco hermēneuō, che significa “interpretare”, “spiegare”, “dare senso”. È, se vogliamo, ciò che rende la Bibbia non solo un testo antico, ma una Parola viva per ogni tempo. Ma proprio per questo motivo, è anche un’operazione delicatissima, perché può facilmente degenerare in soggettivismo, emotivismo, perfino manipolazione.

Ermeneutica non significa dire: “Per me questo versetto vuol dire…”, come se il significato della Parola fosse una materia liquida da modellare secondo gusti, epoche e sensibilità personali. Una corretta ermeneutica non parte dal lettore, ma dall’autore originale. Il lettore, se vuole davvero essere un discepolo e non un consumatore spirituale, si pone in ascolto e si chiede:

Ora che ho compreso cosa voleva dire il testo,
come posso viverlo fedelmente nel mio contesto?

L’ermeneutica è il ponte tra due mondi: quello del testo e quello della nostra esistenza. È l’arte di attualizzare senza alterare, di contestualizzare senza deformare, di trasporre senza tradire. È l’esercizio sapienziale che permette alla verità eterna di Dio di incontrare i bisogni e le sfide del nostro tempo, senza che venga snaturata la sua sostanza.

Prendiamo per esempio la parabola del buon samaritano (Luca 10). L’esegesi ci aiuterà a capire chi fosse un samaritano per un ebreo del I secolo, che ruolo avessero il sacerdote e il levita, e cosa intendesse Yeshua nel rispondere alla domanda «Chi è il mio prossimo?». Ma è l’ermeneutica che ci permetterà di vedere, nel nostro quotidiano, chi sono oggi “i samaritani” o “i feriti sul ciglio della strada”: migranti, poveri, scartati, esclusi. L’ermeneutica trasforma il passato in presente, senza tradire né l’uno né l’altro.

Un’ermeneutica ben fatta è come una finestra: non riflette l’immagine di chi guarda, ma permette di vedere oltre, verso l’orizzonte della volontà di Dio. È il momento in cui la Bibbia smette di essere un oggetto di studio e diventa un soggetto che ci interroga, ci giudica, ci consola, ci converte. Tuttavia — e questo va detto con forza — l’ermeneutica senza esegesi è cieca, mentre l’esegesi senza ermeneutica è muta. La prima rischia di diventare fantasia teologica, la seconda mera archeologia biblica. È solo nella loro sintesi equilibrata, rispettosa, e spiritualmente fondata che nasce una comprensione autentica e trasformante della Parola.

L’ermeneutica è dunque un atto di responsabilità e di fede. Responsabilità, perché il modo in cui interpretiamo la Bibbia incide sulla vita di chi ci ascolta, sulle scelte etiche, sulle relazioni, sulle dottrine. Fede, perché in quel processo di interpretazione non siamo soli: lo Spirito Santo accompagna chi, con cuore puro e intelletto onesto, cerca di capire come vivere oggi ciò che Dio ha detto ieri.


I pericoli di una confusione fatale: quando si traveste la voce di Dio con la nostra

Non è solo una questione accademica, e nemmeno una sterile disputa tra teologi da biblioteca: confondere esegesi ed ermeneutica è una tragedia spirituale. È come invertire i segnali su un percorso di montagna: può sembrare una sciocchezza da poco, ma porta a perdersi, a precipitare, o — peggio ancora — a portare altri nella direzione sbagliata, credendo di essere guide.

Quando si salta l’esegesi e si passa direttamente all’ermeneutica, si compie un atto di violenza sul testo. Lo si strappa dal suo contesto, lo si priva della sua voce autentica, lo si costringe a parlare un linguaggio che non gli appartiene. Il risultato è una lettura soggettiva, arbitraria, e spesso pericolosamente autoreferenziale. Non si legge più per ascoltare Dio, ma per sentirsi confermati da Dio in ciò che già si pensa o si desidera.

Il nome tecnico di questo errore è “eisegesi”, ovvero il contrario dell’esegesi: non “trarre fuori dal testo” ma “inserirvi dentro” ciò che vogliamo trovarci. È una tentazione antica come il peccato: il serpente, nel giardino, fece proprio questo, reinterpretando le parole di Dio in modo più accattivante. È l’antica arte gnostica di piegare la Parola al proprio volere, anziché piegare il proprio cuore alla Parola.

Uno degli effetti più disastrosi di questa confusione è la nascita di dottrine distorte. Prendere un versetto fuori contesto, applicarlo alla lettera in modo anacronistico o usarlo come arma teologica, ha prodotto — e continua a produrre — ferite nella Kehillah, divisioni, eresie, e perfino abusi spirituali. Quanti hanno usato la Bibbia per giustificare il razzismo, la schiavitù, la sottomissione cieca, la manipolazione, le teocrazie violente? Quanti versetti, tolti dal loro significato originario, sono diventati pretesto per leggi religiose senza misericordia, o per libertinaggi camuffati da “libertà in Cristo”?

L’altro lato della medaglia è l’esegesi senza ermeneutica: un sapere sterile, una Bibbia ridotta a museo, un’archeologia spirituale che non genera vita. C’è chi sa spiegare in dettaglio ogni particolarità grammaticale dell’ebraico biblico, ma non sa trarne una parola di luce per chi soffre, per chi cerca Dio oggi. Anche questo è un pericolo. La verità non è fatta solo per essere capita, ma per essere vissuta.

Il punto è questo: non possiamo permetterci di ignorare né l’una né l’altra. Ma soprattutto, non possiamo confondere i ruoli: confondere queste due discipline equivale a confondere il ruolo di una donna e di un uomo in un nucleo familiare. L’esegesi viene prima. È lei che fonda il terreno su cui l’ermeneutica può costruire. Non si applica ciò che non si è prima compreso. Non si spiritualizza ciò che non si è prima contestualizzato. Non si vive la Parola se prima non la si lascia parlare con la propria voce, e non con la nostra.

Confondere i due approcci è come mescolare la mappa con il territorio: si finisce per camminare alla cieca, guidati da una proiezione e non dalla realtà. E in campo spirituale, camminare alla cieca non è solo pericoloso: è irresponsabile.


Dalla Parola alla vita: esempi pratici

ESEMPIO 1 – Geremia 29,11

Infatti io so i pensieri che medito per voi», dice YHWH, «pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza.
📜 Esegesi

Questo versetto è tra i più citati nei contesti cristiani moderni, spesso incorniciato, stampato sulle tazze da colazione o declamato nei momenti di scoraggiamento. Ma cosa dice davvero?

Il capitolo 29 del profeta Geremia è una lettera inviata agli esuli ebrei deportati a Babilonia. Sono parole pronunciate in un momento di giudizio, non di trionfo. Il popolo ha subito la deportazione a causa della propria infedeltà, e molti falsi profeti promettevano un ritorno rapido in patria. Geremia, invece, annuncia che l’esilio durerà 70 anni, e invita il popolo a stabilirsi in terra straniera, a pregare per il bene della città che li ha deportati, e ad attendere con fede. Il versetto 11 è una promessa collettiva, non individuale; una promessa futura, non immediata. È un atto di grazia di Dio dopo il castigo.

🔍 Ermeneutica

Possiamo allora dire che questo versetto “non vale per noi”? Assolutamente no. Ma dobbiamo interpretarlo nel suo principio teologico, non nel suo scenario storico. Il messaggio che possiamo trarne è questo: Dio non dimentica il Suo popolo, anche nei momenti di prova; i Suoi progetti sono sempre orientati al bene finale, anche quando passano attraverso stagioni difficili. Questa verità può sostenere il credente di oggi, ma senza trasformare il versetto in un talismano che promette successo immediato o benessere garantito.

La vera consolazione non è nel credere che tutto andrà bene come voglio io, ma che Dio ha un disegno di pace anche quando io non lo comprendo pienamente.

ESEMPIO 2 – 1 Corinzi 6,19-20

Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi…? Glorificate dunque Dio nel vostro corpo.
📜 Esegesi

Paolo scrive alla comunità di Corinto, una città greco-romana profondamente influenzata da una cultura dualista: il corpo era considerato irrilevante, o persino negativo, rispetto all’anima. Alcuni cristiani pensavano che la libertà nel Messia li sollevasse da ogni vincolo morale, anche in ambito sessuale. Paolo, invece, afferma con forza che il corpo ha un valore sacro, perché abitato dallo Spirito Santo. Questo insegnamento non nasce dal desiderio di imporre un codice puritano, ma da una teologia della presenza di Dio nel credente.

🔍 Ermeneutica

Il principio spirituale resta invariato: il corpo non è proprietà privata, ma spazio sacro della presenza divina. Applicare oggi questo testo significa riconoscere che ogni uso scorretto del nostro corpo — sessualmente, eticamente, perfino nel trascurarne la salute — è una profanazione del Tempio di Dio. Non si tratta semplicemente di “non fumare” o “non tatuarsi”, come alcuni hanno riduttivamente argomentato: si tratta di vivere ogni dimensione corporea alla luce della santità che ci abita.

Questo versetto oggi ci richiama alla responsabilità integrale: onorare Dio non solo con parole e idee, ma anche con scelte concrete che riguardano il nostro corpo, le nostre relazioni e la nostra etica quotidiana

ESEMPIO 3 – Deuteronomio 22,5

La donna non si metterà un abito da uomo, né l’uomo si vestirà da donna, perché chiunque fa tali cose è in abominio a YHWH.
📜 Esegesi

Questo comandamento si inserisce in un contesto legislativo mosaico, volto a preservare l’ordine cultuale e sociale d’Israele in opposizione alle pratiche pagane circostanti. Alcuni studiosi suggeriscono che si trattasse anche di prevenire travestimenti usati in culti idolatrici e prostituzione sacra. Il principio sotteso non è un’ossessione per l’abbigliamento in sé, ma la tutela dell’identità sessuale creata da Dio, in un contesto dove i ruoli e i simboli erano fortemente codificati.

🔍 Ermeneutica

Applicare oggi questo versetto richiede cautela e discernimento. Non possiamo ridurre il principio alla foggia degli abiti, perché l’abbigliamento “maschile” o “femminile” varia da cultura a cultura e da epoca a epoca. L’insegnamento valido oggi è il principio di fondo: onorare e rispettare l’identità sessuale come dono divino, e respingere ogni confusione o manipolazione volontaria del progetto creaturale.

Questa interpretazione ci aiuta ad affrontare temi delicati della contemporaneità — come l’identità di genere e l’ideologia transgender — con fedeltà biblica ma anche con intelligenza spirituale, evitando sia l’anacronismo legalista che il relativismo arrendevole.

ESEMPIO 4 – Levitico 19,19

Osserverete le mie leggi. Non farai accoppiare bestie di specie diversa; non seminerai il tuo campo con due tipi di semi e non indosserai un vestito tessuto di due materiali diversi.
📜 Esegesi

A prima vista, questo versetto può sembrare un insieme di prescrizioni arbitrarie o stravaganti. Ma nell’ambito del Levitico, queste istruzioni fanno parte del cosiddetto codice di santità, in cui Israele viene chiamato a distinguersi dalle nazioni circostanti. Il tema chiave è la separazione tra il sacro e il profano, tra l’ordine di Dio e il caos delle culture pagane.

In un mondo agricolo e tribale dove le mescolanze venivano spesso associate a pratiche magiche, idolatriche o sincretistiche, queste leggi avevano lo scopo di educare il popolo alla purezza simbolica, alla coerenza e alla distinzione. L’unicità di Dio doveva riflettersi nell’unicità e integrità del Suo popolo. Non si tratta, quindi, di un'ossessione per i materiali o le specie animali, ma di un linguaggio rituale e pedagogico, volto a insegnare un principio teologico: Dio è ordine, separazione, distinzione.

🔍 Ermeneutica

Oggi nessun credente è chiamato a evitare le fibre miste nei vestiti, né a coltivare campi con una sola specie di pianta. Il sacrificio del Messia ha adempiuto e trasformato la Legge rituale, e noi non viviamo più sotto il codice levitico.

Ma — e qui l’ermeneutica interviene con forza — il principio spirituale resta pienamente valido: Dio ci chiama a una vita separata, integra, coerente. In un’epoca di ibridazioni morali, compromessi dottrinali e sincretismi spirituali, questo versetto ci interpella in profondità: dove stiamo mescolando ciò che Dio ha chiamato a essere distinto?

Applicare questo testo oggi significa, ad esempio, riflettere su:

  • la purezza della nostra testimonianza in un mondo confuso;
  • la fedeltà alla verità in un tempo di relativismo;
  • la coerenza etica in una cultura che mescola sacro e profano con leggerezza.

La vera santità non sta nel tessuto del tuo vestito, ma nella stoffa della tua vita spirituale.

ESEMPIO 5 – Giovanni 8,1-11

E, siccome continuavano a interrogarlo, Egli, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei»

📜 Esegesi

Il contesto è fortemente polemico: Yeshua è a Gerusalemme, e i farisei — non per amore della Legge, ma per tendergli un tranello dopo l'altro — gli portano una donna sorpresa in adulterio. La Legge mosaica (Lev. 20,10; Deut. 22,22) prevedeva la pena capitale per l’adulterio, ma l’applicazione concreta di tale pena era estremamente rara, soprattutto sotto il dominio romano, che proibiva esecuzioni capitali non autorizzate.

Il vero scopo dei religiosi non era la giustizia, ma l’intralcio a Yeshua: se avesse condannato la donna, sarebbe apparso spietato; se l’avesse graziata, sarebbe sembrato infedele alla Torah. È un gioco teologico macabro, pieno di ossa secche, cioè di morte, in cui la vita di una donna è solo lo strumento di una trappola religiosa.

Yeshua non nega la Torah, ma smonta l’ipocrisia di chi la brandisce come arma. Non dice: “La Torah è sbagliata”, ma: “Può applicarla chi ne è degno”. E chi è degno? È un colpo letale all’apparato della autogiustificazione religiosa. E il testo, ironicamente, annota: «se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani» (v.9). Lo immagino come un modo per dire: se ne andarono con la coda fra le gambe. Un disarmo silenzioso e progressivo, davanti alla coscienza messa a nudo.

🔍 Ermeneutica

Questo episodio ci parla ancora oggi con impressionante attualità. La religione, quando perde la verità e l’umiltà, diventa carnefice. Il testo ci insegna che si può avere la Scrittura in mano e il veleno nel cuore. Si può citare la Torah alla lettera e trasgredirla nello Spirito. Si può invocare Dio e servire, in fondo, solo sé stessi.

L’ermeneutica ci porta a riconoscere i "Simeone e Levi spirituali" del nostro tempo — quelli che non cercano giustizia, ma un capro espiatorio. Quelli che difendono la dottrina per crocifiggere fratelli, che travestono la propria frustrazione e invidia con lo zelo religioso, e usano il pulpito come tribunale.

Eppure, il messaggio di Yeshua non si esaurisce in una denuncia della religione corrotta: è, al tempo stesso, una proclamazione di speranza per chi è caduto. La misericordia, nel cuore del Messia, non è una debolezza, ma la forza che redime. Non è colui che si pensa abbia peccato a trovarsi più lontano da Dio, ma colui che, senza compassione, si erge a giudice impugnando le pietre della Legge come armi dell’orgoglio. La santità autentica non si misura nel rigore del giudizio, ma nella capacità di sospendere la condanna per amore della verità e della grazia. Come Giuseppe, uomo giusto secondo la Scrittura, che — prima ancora di sapere che Maria era incinta per opera dello Spirito — scelse il silenzio misericordioso al posto del clamore punitivo: «Giuseppe, suo marito, che era uomo giusto e non voleva esporla a infamia, si propose di lasciarla segretamente» (Mt. 1,19). Questa è giustizia secondo Dio: non quella che punisce per essere giusti e per infamare per apparire ancora più giusti e in linea con la lettera della Torah, ma quella che ama per essere fedeli.

Infine, il silenzio iniziale di Yeshua — quando si china e scrive per terra — riecheggia il silenzio di Dio nei momenti in cui la religione si fa assassina. Ma il silenzio non è assenza del prossimo: è la pausa prima della parola che disarma.


Conclusione

Lo studio della Scrittura non è un esercizio intellettuale fine a sé stesso, né un passatempo per anime curiose. È un atto di obbedienza, un atto di adorazione. Quando apriamo la Bibbia, ci accostiamo a una voce che non è nostra. Una voce che precede il nostro tempo, che sfida i nostri pensieri, che smaschera le nostre illusioni, che ci chiama alla vita. Ed è proprio per questo che abbiamo bisogno di distinguere con lucidità — e con timore — tra esegesi ed ermeneutica.

L’esegesi ci costringe a tacere per ascoltare. A uscire da noi stessi per entrare nel mondo dell’autore sacro. È l’arte della fedeltà, della pazienza, della disciplina. È il gesto umile di chi riconosce che la verità non nasce da ciò che sente nel cuore, ma da ciò che Dio ha detto nella storia. Chi salta questo passo costruisce dottrine sulle sabbie mobili del sentimentalismo, e chi insegna senza aver prima compreso rischia di sostituire la Parola con le proprie parole.

L’ermeneutica, invece, è ciò che permette a quella Parola di non restare chiusa nel passato, ma di illuminare il presente. È l’arte della saggezza, della comprensione spirituale, della trasposizione responsabile. È il gesto amorevole di chi si lascia trasformare dal testo, non solo informare. Di chi desidera vivere ciò che ha capito, e farlo in un tempo e in un contesto che sono profondamente diversi da quelli dell’antico Israele o della Kehillah apostolica, ma non meno bisognosi di verità.

Non esiste vera ermeneutica senza una solida esegesi. E non esiste esegesi viva se non porta a una ermeneutica che trasforma la vita. Questi due pilastri non devono mai competere, ma camminare insieme, come due ali di uno stesso volo, come due occhi che permettono una visione profonda.

Se vogliamo essere discepoli e non semplici consumatori spirituali; se vogliamo trasmettere verità e non opinioni mascherate da rivelazione; se vogliamo ascoltare Dio e non solo l’eco dei nostri desideri, dobbiamo imparare a distinguere ciò che il testo dice da ciò che esso significa per noi oggi.

Studiare la Bibbia con onestà e riverenza non è una prerogativa di pochi accademici: è una chiamata universale alla maturità spirituale. Perché chi manipola la Parola — anche involontariamente — finisce per manipolare la fede. Ma chi la onora, chi la comprende e la vive nel giusto ordine, diventa canale di luce, di consolazione e di verità per sé stesso e per gli altri.

Che il Signore ci dia orecchie per ascoltare, intelligenza per comprendere, e cuori disposti a ubbidire.

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