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Il velo femminile nella Bibbia

Contesto storico, culturale e teologico
9 ottobre 2025 di
Il velo femminile nella Bibbia
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

Negli ultimi quindici anni in tanti mi hanno chiesto un parere in merito all’uso del velo femminile nella Kehillah. In passato la risposta che davo è stata spesso formulata secondo categorie consolidate dell’ambiente evangelico nel quale ero stato formato, contesto in cui la pratica del velo nelle adunanze è consueta; tuttavia tale adesione è avvenuta più per consuetudine e selezione di versetti che per effettiva comprensione del suo fondamento, significato e telos (fine ultimo). Un successivo percorso di maturazione intellettuale e spirituale mi ha consentito un discernimento più consapevole, orientato a presentare non semplicemente ciò che «il mio pastore mi ha insegnato», ma ciò che la Scrittura effettivamente insegna.

In un’epoca in cui il cosiddetto progresso secolare tende a dettare criteri anche all’interno delle chiese — talora con l’assunto che «se il mondo si evolve, anche la Chiesa debba evolversi» — resta valido il principio riformatore ecclesia reformata, semper reformanda. L’uso del velo da parte delle donne, in particolare nel contesto liturgico, è regolato nelle Scritture Apostoliche da un passo autorevole dell’apostolo Paolo (1 Cor. 11,2-16). Secondo l’apostolo, «ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, fa disonore al proprio capo, ed è come se fosse rasata». Tale affermazione ha suscitato un ampio dibattito:

  • alcuni la ritengono un semplice retaggio culturale dell’antichità; tra costoro vi sono talvolta anche quanti professano il principio della sola Scriptura, senza però applicarlo coerentemente;
  • dall’altro, chi ne ravvisa una portata normativa universale.

Permangono inoltre fraintendimenti storici — come l’idea che «solo le prostitute indossassero il velo» — che richiedono puntuale e categorica confutazione.

Il presente contributo intende esaminare il testo biblico e il suo contesto storico-filologico, mostrando come il velo, nell’antichità, fosse segno di pudore, distinzione e ordine, e non di disonore. Come sarà argomentato, la prassi del coprirsi il capo si radicò a lungo come norma di pietà e decoro femminile, in evidente contrasto con i luoghi comuni diffusi in epoca contemporanea.


Contesto storico-culturale antico

Nell’antichità mediterranea il velo femminile costituiva un segno di modestia e di rispetto, non di disonore. Le fonti greche e latine attestano che le donne sposate si coprivano il capo in pubblico, mentre le fanciulle, non ancora maritate, portavano sovente i capelli sciolti per farsi notare; le prostitute, per contro, adottavano comportamenti anticonvenzionali. Plutarco tramanda il proverbio secondo cui, interrogato sul motivo per cui le ragazze uscissero a capo scoperto e le sposate velate, un corinzio rispose:

Perché le vergini devono trovare marito e le spose restare fedeli a quello che hanno [1]

In modo analogo, Clarke osserva che in Oriente era consuetudine che nessuna donna libera circolasse senza velo — eccezion fatta per le prostitute [2]. In altri termini, le donne reputate rispettabili mantenevano il capo coperto — sia dentro che fuori i contesti religiosi —, per pudore e riconoscimento sociale; viceversa, le prostitute portavano spesso i capelli tagliati o non coperti perché, in fin dei conti, non avevano marito ma molti uomini.

Anche in ambito giudaico la norma era sostanzialmente analoga: il rito legale relativo alla Sotah, donna sospettata di adulterio (Num. 5,18) presuppone un copricapo iniziale, rimosso al momento del rituale. Qualora la colpa fosse accertata, si procedeva alla rasatura del capo e alla privazione del velo, quale segno pubblico di vergogna che avrebbe preceduto la lapidazione: un po' come crocifiggere un uomo esponendolo all'infamia pubblica. Nello stesso giudaismo la rasatura femminile è attestata quale sanzione per l’adulterio [3]. Nel mondo greco, inoltre, i capelli sciolti o recisi in una donna erano frequentemente associati a prostituzione o condizione servile: diverse testimonianze ricordano che teste quasi rasate connotavano schiave, adultere o prostitute [4].

In breve, l’ambiente sociale in cui scrive Paolo conosceva già la distinzione simbolica tra «capo coperto» (donna decorosa) e «capo scoperto o rasato» (vergogna). La donna nubile poteva tenere il capo scoperto finché non fosse sposata; la sposa o promessa sposa e, più in generale, la credente si copriva in segno di pudicizia in assemblea. Le cosiddette qedushot (prostitute del tempio) di Afrodite a Corinto, per esempio, compivano riti con i capelli sciolti e talora rasati, segno della loro condizione cultuale estranea al vincolo matrimoniale. In tale quadro, il velo non va inteso come «retaggio di una cultura indegna», bensì come simbolo spirituale condiviso di pudore e di ordine sociale oltre che religioso, riconosciuto dalle culture del tempo.

Oggi, in ogni Paese, le consuetudini sociali possono suggerire quando coprire o scoprire il capo; in ambito congregazionale, invece, non vi è margine discrezionale. L’uso sociale è una cosa, l’uso liturgico è tutt’altra. La stragrande maggioranza della cristianità odierna fatica ancora a cogliere questa distinzione.


L’insegnamento paolino in 1 Corinzi 11

Il passo di riferimento (1 Cor. 11,2-16) va interpretato alla luce del contesto storico-culturale descritto (esegesi) e capire non se applicarlo ma come applicarlo oggi (ermeneutica). Le pratiche di fede — senza le quali la fede è morta (Giac. 2,17.26) — non sono sicuramente un fattore di cultura né di salvezza. L’Apostolo riafferma la norma sul copricapo femminile secondo la seguente articolazione logica:

  1. Ordine di autorità. «Il capo di ogni uomo è il Messia; il capo della donna è l’uomo» (v. 3). Il principio gerarchico — espresso dalla metafora del «capo» — fonda la condotta richiesta almeno in assemblea.
  2. Decoro liturgico. L’uomo che prega con il capo coperto «disonora il suo Capo» (Yeshua); la donna che prega a capo scoperto «disonora il suo capo» (marito), e questo viene considerato «come se fosse rasata» (vv. 4-5): cioè si comporta come se non avesse marito, mancandogli di rispetto. Il coprirsi indica l’accoglienza dell’autorità; lo scoprirsi, il suo rifiuto. La rasatura/taglio dei capelli, segno pubblico di disonore (Num. 5), richiama l’ambito dell’adulterio sospetto (sotah), cioè di una situazione di infedeltà coniugale ambigua o della prostituzione. Paolo impiega volutamente tale parallelismo per stigmatizzare il rifiuto del velo.
  3. Fondamenti creazionali. «L’uomo non viene dalla donna, ma la donna dall’uomo»; «l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo» (vv. 8-9). «L’uomo è immagine e gloria di Dio; la donna è gloria dell’uomo» (v. 7). Di qui il «segno di autorità» sul capo (v. 10), anche «a motivo degli angeli»: non sopraffazione, ma riconoscimento dell’ordine creato: per Paolo, alla luce della rivelazione, la donna che non rispetta il decoro in assemblea va contro la sua natura davanti al marito e a Dio, contro l'autorità di Dio che ha stabilito quell'ordine e l'autorità del marito.
  4. Appello alla natura. Paolo ricorre all’argomento della «natura» (vv. 14-15) ponendo una domanda retorica: non è forse evidente che per l’uomo la chioma lunga è indecorosa, mentre per la donna la capigliatura è «gloria» ed equivale a un «velo naturale»? Se la conformazione naturale già suggerisce una differenziazione visibile tra i sessi, tanto più nell’assemblea essa va rispettata nel segno liturgico: l’uomo non deve coprirsi il capo, la donna — specie se sposata — sì. Ne segue che l’uso non è una moda contingente, ma il riflesso di un ordine stabile che la prassi cultuale riconosce e onora. Oggi, purtroppo, si registra spesso un capovolgimento del decoro biblico: uomini che predicano, insegnano e pregano con grande disinvoltura con il capo coperto (berretti, cappellini, coppole, kippah) e, per contro, donne a capo scoperto. In una simile situazione di capovolgimento dell'ordine stabilito, Paolo non lo leggerebbe come un residuo culturale superato, ma come pratica «contro natura».
  5. Tradizione apostolica. Paolo apre il capitolo 11 richiamando non un costume locale, ma l’imitazione del Messia e la fedeltà all’insegnamento ricevuto: «Ora vi lodo perché vi ricordate di me in ogni cosa e conservate le mie istruzioni come ve le ho trasmesse» (v. 2). E, a chi volesse trasformare la questione in contesa, replica: «Se poi a qualcuno piace essere litigioso, noi non abbiamo tale abitudine; e neppure le assemblee di Dio» (v. 16). Ne consegue che l’uso del velo (come ogni altra pratica apostolica interna alla Kehillah, cfr. 1 Cor. 4,6) non nasce da pressioni culturali contingenti, ma rientra nella prassi spirituale trasmessa e condivisa, e non in un’imposizione episodica. Chi si rifiuta di attenersi alle istruzioni paoline è «un litigioso» (cfr. 1 Tim. 3,3; 2 Tim. 2,23-25; 1 Cor. 6,1-8; 2 Cor. 12,20; Flp. 2,14-15; Tt. 3,9-11 cfr. v. 2; Rom. 12,8; Gac. 1,19-20).

Per Paolo il velo non è un mero ornamento, ma un segno dell’ordine creazionale e del rispetto dovuto nel culto. Come per l’antico Israele l’osservanza della Legge distingueva dalle nazioni pagane, così per la primitiva Kehillah il rispetto delle proprie pratiche interne distingueva dalle usanze circostanti. Le motivazioni invocate — gerarchia divina, decoro comunitario, radicamento nella creazione, richiamo alla “natura” e continuità con la tradizione — mostrano la profondità teologica della prassi. Anche se la terminologia paolina può apparire distante, il principio resta limpido in ogni tempo: in assemblea va preservato un comportamento conforme all’ordine stabilito non da Paolo, ma da Dio.


Obiezioni moderne: il velo e la prostituzione

Obiezione e confutazione

L’asserzione secondo cui il velo cristiano avrebbe origini pagane o immorali — «lo indossavano soltanto le prostitute» — è priva di fondamento storico, biblico, antropologico, logico e razionale. Le fonti storiche, oltre che la Scrittura, attestano l’opposto. Paolo, infatti, equipara lo scoprirsi il capo alla rasatura dei capelli (1 Cor. 11,5-6), richiamando una sanzione infamante nelle legislazioni antiche. Nel contesto pagano greco-romano, coprirsi il capo era tutt'altro che segno indecoroso, ma segno di pudore e rispettabilità; circolare a capo scoperto, invece, era comportamento indecoroso associato a categorie marginali. Clarke nota che nell'ambito sociale del Vicino Oriente antico «nessuna donna libera andava in giro senza velo — tranne le prostitute». Dunque, non è vero che il velo fosse «da prostitute»: al contrario, nel sentire comune il capo e il volto velato indicava modestia; le prostitute, semmai, esibivano capelli rasati quasi a zero o acconciature difformi, non il tipico velo delle donne pudiche.

Argomento paolino

Il ragionamento dell’apostolo circa l'ambito ecclesiale è stringente:

Perché se la donna non ha il capo coperto [in assemblea], si faccia anche tagliare i capelli! Ma se per una donna è cosa vergognosa farsi tagliare i capelli o rasare, si copra il capo (1 Cor. 11,6)

Paolo fa leva su un dato sociale-religioso condiviso: la rasatura femminile («scopertura del capo» anche in senso di rasatura della chioma) è segno di disonore (Num. 5) e, in ambito giudaico, punizione legata al sospetto di adulterio, quindi ambiguità coniugale e spirituale (fedele o non fedele?); analoghe associazioni compaiono nel mondo greco-romano. Se il decoro va mantenuto nel mondo, quanto più in assemblea: rinunciare al velo in assemblea espone quindi la credente a un’identificazione con modelli profani e disordinati, contrari all’ordine naturale divino e al decoro del culto.

Storicamente e biblicamente, il velo è associato a condotta rispettabile, non a immoralità. Le accuse che lo qualificano come strumento di oppressione o segno di impurità morale non resistono all’esame delle fonti. È piuttosto l’assenza del velo in assemblea — pregare o profetizzare a capo scoperto — che Paolo qualifica come atto di disordine e di mancato riconoscimento dell’autorità, tanto divina-apostolica quanto coniugale.

«Mio marito non obietta se non indosso il velo!»
Comprensibile; tuttavia, l’assenza di obiezioni da parte del coniuge non annulla l’indicazione apostolica. La pratica di fede non dipende dal consenso coniugale, ma dall'adesione alla Parola. Se la moglie non onora il proprio «capo» e il marito non la educa a onorarlo anche in questo segno, entrambi mancano al loro «Capo» e non si mostrano imitatori — come invece Paolo e quanti seguivano le sue istruzioni.
Per Paolo — che si presenta come imitatore del Messia — la prescrizione resta vincolante «in tutte le assemblee», non soltanto a Corinto, segnata da disordine etico, sociale e religioso. Così come Adamo «non obiettò» accogliendo il frutto offerto da Eva, e tuttavia fu disobbedienza, allo stesso modo il consenso del marito non rende indifferente ciò che Dio comanda: «non mangiatene, altrimenti...». Il salario della disobbedienza non muta perché Dio non fa particolarismi.
Se per tuo marito «non è un problema», diventa in realtà un problema per entrambi, e il ravvedimento riguarda entrambi: attenuare, alterare, aggirare, giustificare o disattendere la Parola non è un’opzione né una variabile culturale.
Le Scritture non sono un semplice «libro di religione» o un manuale di etica mediorientale antica, ma l'eterna e non-annullabile Parola di Dio.
Posso capire come ti senti leggendo queste parole: inizia da qui la battaglia. E probabilmente starai già chiedendo ad altri 100 maestri cosa fare, accettando più volentieri chi ti dice "non indossarlo". Discerni la Parola di Dio, non quella dell'uomo.

Ricezione patristica e tradizione antica

La patristica ha generalmente interpretato il comando paolino come norma di pietà; va però chiarito fin dall’inizio che l'interpretazione patristica non è di per sé vincolante, ma rappresenta il modo in cui la Chiesa post-apostolica ha recepito e applicato l’insegnamento degli apostoli. E va ricordato che l'era patristica è, in gran parte, l'epoca delle prime eresie ed apostasie.

Già tra II e III secolo teologi patristici leggono il testo in senso letterale: Tertulliano afferma che le vergini «devono essere velate da quando superano l’età della fanciullezza» e presenta la prassi come «scaturita dalla verità» (la Bibbia tace su questo), non come semplice costume umano [5]. A suo avviso, ovunque si fosse radicata una Chiesa apostolica (Grecia, Libia, Asia Minore, ecc.), la maggioranza delle comunità manteneva le vergini coperte in pubblico. Anche Clemente Alessandrino e altri teologi concordano nel richiedere il velo per gli adulti durante il culto.

Dal IV secolo, concili e canoni consolidano l’uso. Il Concilio di Gangra (attorno al 340) censura chi rifiuta il capo coperto alle donne nel culto, riaffermando l’autorità della prassi paolina. Nel diritto canonico bizantino e, poi, in quello latino medievale, il velo diviene norma per le spose e per le donne in assemblea [6]. La codificazione del 1917, in vigore fino al Vaticano II, ribadisce che «la donna credente si copra il capo» quale segno di sobrietà e obbedienza. In molti istituti religiosi femminili il velo resta inoltre segno di consacrazione sponsale (suor Canopi disse: «il velo è clausura nella clausura»).

Insomma, la storia ecclesiale mostra una continuità ampia nell’applicazione dell’insegnamento paolino: non un semplice uso locale, ma una disciplina largamente condivisa e motivata teologicamente.


Ricezione evangelica carismatica

Nella teologia contemporanea, soprattutto negli ambienti evangelici e carismatici, il velo è di solito letto in chiave contestuale. Il passo di 1 Cor. 11 viene interpretato come legato a codici d’onore e modestia dell’antico Mediterraneo e, dunque, non universalmente vincolante. Molti notano che Paolo parla della chioma come «gloria» e, in alcuni casi, come «copertura naturale»: perciò non sarebbe necessario aggiungere un tessuto sul capo. Inoltre, il termine kephalē (capo) viene talvolta compreso come «origine» più che come «autorità gerarchica», e l’appello alla «natura» è inteso come richiamo alle consuetudini condivise, quindi storicizzabili. Anche il v. 16 è letto come un invito a non trasformare usi locali in norme rigide.

Sul piano pastorale, il non utilizzo è giustificato con la cosiddetta «libertà nello Spirito» e l’evitamento di segni percepiti come legalistici; la modestia, si afferma, oggi si esprime con altri codici (sobrietà, atteggiamento). In prospettiva missionale, dove il velo evoca tradizioni extra-cristiane o sottomissione sociale, lo si evita per non creare barriere. Si richiama inoltre la coscienza personale (Rom. 14) e si concentra l’accento sul principio permanente — onore al Messia e ordine nel culto — più che sul segno specifico. Ne risultano prassi diversificate: le chiese egalitarie tendono a non considerarlo vincolante; quelle complementari raramente lo impongono, pur valorizzando la reciproca sottomissione. Persistono eccezioni (alcuni contesti africani/asiatici, anabattisti, gruppi conservatori) che mantengono il velo per lettura letterale o ragioni culturali. In definitiva, il dibattito ruota attorno alla distinzione tra principio duraturo e forma storica del segno.

Mi viene da dire: mossi dallo spirito di Marcione piuttosto che da quello Santo, a questo punto strappiamo via dalla Bibbia le pagine delle epistole ai Corinzi!


Conclusioni

Dal complesso delle evidenze risulta chiaro che l’uso del velo femminile affonda le proprie radici in motivazioni teologiche e disciplinari, e non costituisce un residuo irrazionale di epoche trascorse. Le Scritture Apostoliche lo collocano entro un disegno divino — ordine creaturale e decoro del culto — (1 Cor. 11,2-16); la tradizione post-apostolica lo ha recepito come segno esteriore di modestia e di comunione con tale ordine. Ridurre il velo a semplice «costume culturale» significa eludere il peso biblico e spirituale dell’insegnamento paolino. Lo stesso testo, di fronte a eventuali contestazioni, richiama la prassi condivisa «delle assemblee di Dio» (1 Cor. 11,16) quindi non solo una faccenda che rigurdi l'antica Corinto, ma tutte le assemblee in modo universale. Le Scritture non invitano a recidere le radici del culto, ma a custodirne la coerenza con la verità rivelata: in questa prospettiva, il velo non è pedanteria antiquata, bensì segno di un ordine divino cui attenersi «in ogni cosa» (1 Cor. 11,2).

La Bibbia non tratta il velo come dettaglio marginale, ma come prescrizione densa di significato. Le donne cristiane — ieri come oggi — sono chiamate a viverla con umiltà e fedeltà; la comunità intera è chiamata a riconoscere nella Parola la norma che supera le mode effimere. L’obbedienza autentica non si misura da professioni verbali di «amore e misericordia», ma da atti concreti, piccoli e quotidiani, che — pur non salvando — concorrono alla santificazione e manifestano a Chi e a che cosa si obbedisce davvero: a Dio e alla Sua Parola o a quella degli uomini?

Se, dopo la lettura, permane il dubbio sul «se» indossare il velo in assemblea, il criterio resta quello apostolico: «Bisogna ubbidire a Dio anziché agli uomini» (At. 5,29). Continua la riflessione nella preghiera, chiedendo allo Spirito — non al sottoscritto — di confermare in modo limpido ciò che la Scrittura espone con chiarezza.

  • Come esprimi la tua fede nella pratica?
  • E qual è il tuo livello di fede nella pratica della Parola?
«Signore, aumentami la fede»: certo, ma la fede non viene aumentata da una bacchetta magica, ma dalla tua volontà di fare per alimentarla. Più fai con sincerità, più la fede aumenta. E' quanto fai a determinare quanta fede hai.

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