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Parashat Pinchas (Numeri 25,10—30,1)

Lo zelo per la tua casa mi consuma
1 novembre 2025 di
Parashat Pinchas (Numeri 25,10—30,1)
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

Le tre porzioni di oggi compongono un itinerario unitario sul significato dello zelo, della vocazione e della purificazione del culto. In ognuna di esse la questione decisiva non è l’energia del gesto, ma la sua sorgente: lo zelo può essere sanante solo se nasce dall’alleanza con YHWH, la chiamata può edificare solo se è ricevuta, e la riforma del culto è veritiera solo se conduce al centro, non a un nuovo perimetro. Pinchas agisce in un’ora di crisi e riceve un’«alleanza di pace» (Num. 25,10-13); Geremia è toccato sulle labbra perché la parola sradichi e pianti (Ger. 1,9-10); Yeshua smaschera la trasformazione della «casa del Padre» in un emporio e annuncia il santuario del Suo corpo (Giov. 2,16.19-21). Non si tratta di episodi isolati, ma di un’unica pedagogia: lo zelo secondo Dio non è furia privata, bensì passione per l’integrità della comunione; la vocazione non fabbrica identità, ma restituisce al servizio; la purificazione non distrugge il Tempio, ma lo riporta al Suo scopo. Con questo filo in mano, entriamo nella Parashah, lasciandoci condurre da uno “zelo che genera pace” verso la parola profetica che giudica per guarire, e infine verso il segno messianico che rifonda il culto nell’umanità di Yeshua.


Parashah (Numeri 25,10–30,1)

Zelo che genera pace: Pinchas e il riordino dell’alleanza

La Parashah apre con Pinchas e con la sua qin‘ah, lo zelo «per YHWH» e non per sé, in un frangente in cui idolatria e licenza hanno ferito l’assemblea (25,10-11). La tradizione rabbinica riconosce il carattere straordinario di quel gesto: i gelosi «per il Nome» intervengono, ma non si fa di un’eccezione una regola (Sanhedrin 82a,10ss). Proprio per questa natura non autocelebrativa, a Pinchas è data la «mia alleanza di pace» (berit shalom) e un «patto di sacerdozio perenne» (Num. 25,12-13). Un dettaglio masoretico, spesso notato dai saggi, segnala una waw "spezzata" nella parola shalom (שלום) [ne parlo nel mio seminario sulla Masorah) quasi a dire che la pace promessa porta il segno della frattura: non è anestesia dei conflitti, ma ordine riconciliato dentro una storia ferita (Ba‘al ha-Turim a Num. 25,12). Così lo zelo non produce una pace “muscolare”, bensì apre lo spazio perché la comunità sia riordinata nella verità.

Infatti il testo procede con un censimento e un nuovo assetto: elencare tribù e famiglie dopo la piaga di Ba'al-Pe'or non è burocrazia, è terapia della memoria, restituzione di identità e responsabilità (Num. 26). In questa ripresa, Mosè non si aggrappa al ruolo, ma intercede per un pastore che «esca davanti» e «rientri davanti» al popolo, perché non sia «come pecore senza pastore» (27,16-17). La risposta è la semikhah su Giosuè: imposizione delle mani, comunicazione misurata di autorità, obbedienza alla Parola (27,18-23). Secondo il Sifre, la luce di Giosuè è vera ma “lunare”, riflessa: «la faccia di Mosè è come il sole, quella di Giosuè come la luna»; l’autorità autentica è sempre ricevuta e limitata (Sifre Bamidbar 131). Qui lo zelo si converte in governo mite: chi ha a cuore la casa di Dio non la possiede, la custodisce.

Segue il riassetto del culto: l’offerta «perenne» mattina e sera, i tempi fissati, le solennità, il respiro sabbatico e festivo che educa il desiderio (Num. 28–29). La liturgia quotidiana non è cornice ornamentale, è “palestra” dell’amore; il cuore non si preserva per intenzioni intermittenti, ma attraverso un ritmo che ci precede e ci forma. Non a caso, il discorso si chiude con i voti e la serietà della parola data (30,1): Dio non chiede riti senza etica della bocca; promettere e mantenere è già culto. Così la Parashah ci porta alla soglia della profezia: dove zelo, governo e liturgia sono stati raddrizzati, la Parola può mettere radici. Il ponte verso Geremia è naturale: se l’alleanza è stata riordinata, ora la voce che viene da Dio può sradicare gli idoli residui e piantare la verità nel profondo (Ger. 1,10).


Haftarah (Geremia 1,1–2,3)

Conosciuto e mandato: la parola che sradica e pianta

La Haftarah racconta una vocazione che non è auto-investitura ma elezione:

Prima che ti formassi nel grembo ti ho conosciuto, prima che uscissi dal seno ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni (Ger. 1,5)

All’obiezione di giovinezza risponde il tocco sulle labbra: Dio mette le Sue parole nella bocca di Geremia, non per amplificarne l’opinione, ma per consegnargli una misura che non è la sua (1,6-9). La formula che conferisce il mandato è decisiva: «per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (1,10). Rashi nota la pedagogia della riforma: i quattro verbi negativi precedono i due positivi perché non si costruisce sull’idolo; l’edificazione vera parte dalla rimozione del falso (commento di Rashi a Ger. 1,10). È la stessa logica della Parashah: prima la piaga è arrestata, poi si ricostruisce; prima si delimita l’autorità, poi la si esercita.

I due segni immediati chiariscono il tempo: il ramo di mandorlo (shaked) allude alla vigilanza (shoked) di Dio sulla Sua Parola, la pentola bollente che si rovescia dal nord annuncia una crisi storica incombente (Ger. 1,11-14). Qui l’alleanza non è sentimento religioso, è carne e storia; il giudizio non è catastrofismo, è fedeltà che non accetta che la comunione sia corrotta. L’incipit del capitolo 2 vibra di una tenerezza lacerante:

Mi ricordo dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore del tuo fidanzamento, quando Mi seguivi nel deserto (2,2)

Il rimprovero nasce dalla memoria: Dio non archivia l’amore dei primi tempi; lo evoca per smascherare la dissipazione presente e chiamare alla teshuvah, al ritorno (Shir HaShirim Rabbah 1,2). La profezia, così, non è un mestiere di indignazioni: è una pedagogia dell’amore che non si rassegna.

Con questa luce, la strada verso la Besorah è già tracciata. Se lo zelo di Pinchas ha riordinato la casa e se la parola consegnata a Geremia sradica e pianta, il passo successivo è inevitabile: scendere nel luogo dove la religiosità rischia di proteggersi da Dio con le sue stesse forme. La profezia, infatti, giudica il culto non per abbatterlo, ma per purificarlo; e lo fa mostrandone la finalità: casa d’incontro, non di transazioni. È ciò che Yeshua compie entrando nel Tempio per la Pasqua (Giov. 2,13).


Besorah (Giovanni 2,13–22)

Lo zelo per la casa: dal segno del Tempio al santuario del corpo

Yeshua sale a Gerusalemme e trova la casa del Padre trasformata in un crocevia commerciale. Il Suo gesto non è esplosione di rabbia, è segno profetico:

Fate uscire di qui queste cose; non fate della casa del Padre Mio una casa di mercato (2,16)

I discepoli comprendono la chiave: «Lo zelo per la tua casa mi divora» (Sal. 69,10; Giov. 2,17). Torna la qin‘ah di Pinchas, ma ormai purificata: non tutela di identità religiose, bensì passione per la verità del culto. La tradizione rabbinica conosce bene il rischio di un culto senza cuore; anche per questo Pirqé Avot invita: «Là dove non ci sono uomini, sforzati di essere un uomo» — un richiamo alla responsabilità personale quando l’ambiente devozionale si inaridisce (Avot 2,5). Non l’eroismo dell’io, ma il coraggio di non cedere alla logica dello scambio.

Alla richiesta di un segno che giustifichi un gesto così incisivo, Yeshua risponde con un mistero: «Distruggete questo Tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Giov. 2,19). L’equivoco dei suoi interlocutori — pensare all’edificio vero e proprio  — è lo stesso che minaccia ogni riformatore: fermarsi alla cornice, smarrire il centro. «Ma Egli parlava del santuario del Suo corpo»; e solo dopo la risurrezione i discepoli compresero e credettero alla Scrittura e alla parola detta (2,21-22). Qui si compone l’intero itinerario: lo zelo non sfocia nel dominio, ma nell’offerta del corpo; la vocazione non s’inasprisce in condanna, ma si compie nella Pasqua; la purificazione del culto non resta igiene rituale, ma diventa accesso alla presenza di Dio nell’umanità del Figlio. Se il Tempio definitivo è il corpo risorto di Yeshua, allora tutto il servizio religioso è ricentrato: le nostre prassi non mirano a “far funzionare” il sacro, ma a custodire una comunione viva.

Questo rovesciamento non elimina il Tempio, lo porta alla sua verità. Come nella Parashah, dove il tamid educa il cuore, e come nella Haftarah, dove la parola estirpa l’idolo, così nella Besorah il culto ritrova la sua semplice grandezza: incontro, gratuità, ascolto, pace. E torna la “waw spezzata” di shalom: la pace che Yeshua consegna non è evasione dal conflitto, è riconciliazione ferita e fedele, sigillata nelle sue piaghe gloriose (Ba‘al ha-Turim a Num. 25,12). Se il santuario è il Suo corpo, la comunità che vive di Lui è chiamata a diventare una casa abitabile, una liturgia quotidiana in cui parola, pane, giustizia e misericordia non sono termini liturgici ma forme di vita.


Conclusione

Raccolti insieme, questi testi ci consegnano un criterio per il nostro tempo. Anzitutto, lo zelo: è necessario, ma dev’essere guarito. Non può essere la scorciatoia con cui sfoghiamo risentimenti sotto il Nome di Dio; deve essere la determinazione a non trattare l’alleanza come un contratto a perdere. Pinchas riceve una pace spezzata e reale perché ha difeso non il suo onore, ma quello di YHWH e la vita del popolo (Num. 25,10-13 ➔ Ba‘al ha-Turim a 25,12). Poi, la vocazione: non ci si incorona profeti; si riceve una parola che prima di demolire fuori sradica dentro, che prima di edificare prostra in adorazione (Ger. 1,9-10; Rashi ➔ 1,10). Infine, la purificazione: Yeshua non chiude il Tempio; lo apre al suo cuore. Purifica perché ama, e ama fino a dare il corpo come santuario accessibile, distrutto e risorto per noi (Giov. 2,13-22; Sal. 69,10). In questa luce, la riforma non è un programma, ma una liturgia di vita: una fedeltà quotidiana che impedisce al culto di degenerare in scambio, all’autorità di travestirsi da possesso, alla profezia di ridursi a lamento.

L’invito è concreto e mite.

  • Ricomincia dal tamid: una preghiera mattutina fedele, una sera consegnata alla gratitudine, un piccolo digiuno che sciolga il cuore dall’idolo della prestazione (Num. 28–29).
  • Ricomincia dalla Parola: chiedi il tocco sulle labbra perché il discorso, in famiglia e nella comunità, sia giusto, e i voti — le promesse — non siano retorica, ma culto (Ger. 1,9; Num. 30,1).
  • Ricomincia dalla casa: guarda la tua “religione” quotidiana — tempo, denaro, relazioni — e domanda se lì dimori il Padre o se è diventata una soglia di scambio; lascia che lo zelo per la Sua casa ti «divori» senza bruciare nessuno, e che la pace del Risorto — pur «spezzata» nel segno delle piaghe — pacifichi il tuo modo di pregare, guidare, servire (Giov. 2,17.21-22; Ba‘al ha-Turim a Num. 25,12). 

Se «là dove non ci sono uomini» ti sforzerai di «essere un uomo» — una donna, un fratello, una sorella — non per moralismo ma per amore del Padre (Avot 2,5), allora lo zelo genererà pace, la profezia edificherà, il culto tornerà ad essere casa. È da qui che riparte la comunità: da una scelta possibile oggi, piccola e vera, nella quale la Scrittura non resta un testo, ma una dimora in cui abitare insieme.


Ascolta la mia Parashah del 07/07/2023




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