Introduzione
La Parashat Emor, la Haftarah tratta da Ez. 44,15-31 e la Besorah di Matteo 26,59-66, pur appartenendo a contesti storici e letterari diversi, presentano un filo rosso comune che attraversa l’intera rivelazione biblica: la chiamata alla santità. Dal santuario del deserto, dove i figli di Aronne ricevettero norme precise per distinguere il sacro dal profano, fino alla visione profetica di Ezechiele, che ribadisce la fedeltà dei sacerdoti di Sadoc, e infine al processo ingiusto contro Yeshua davanti al Sinedrio, si manifesta costantemente la tensione tra la santità divina e l’infedeltà umana.
Le leggi sacerdotali e il calendario delle feste non sono meri formalismi rituali, ma strumenti pedagogici attraverso i quali Dio plasma il Suo popolo, insegnandogli a vivere separato dalle impurità e consacrato a Lui. La figura dei sacerdoti di Sadoc, che rimasero fedeli quando altri tradirono, mostra che la vera vocazione sacerdotale è mediare tra Dio e Israele custodendo la distinzione tra ciò che è santo e ciò che è comune. In modo supremo, Yeshua stesso, il Messia, rappresenta la pienezza di questa santità, affrontando in silenzio le false accuse e dichiarando con autorità la Sua identità divina davanti ai capi religiosi.
Oggi, come allora, la voce di Dio continua a risuonare: «Siate santi, perché Io sono santo» (Lev. 11,44; 1 Pt. 1,16). Non si tratta di un legalismo sterile, ma di una chiamata viva e attuale a non conformarci a questo mondo, a custodire la nostra appartenenza al Signore e a mantenere accesa la luce della testimonianza là dove regna l’oscurità: la santità non è un’opzione, ma il segno distintivo di chi appartiene al Dio vivente.
Parashat Emor (Levitico 21—24,23)
Santità sacerdotale e calendario delle feste
Il Signore rivolge ai sacerdoti, discendenti di Aronne, un insieme di istruzioni riguardanti la santità. La loro consacrazione al servizio è totale, perché è Dio stesso a santificarli: «Io sono YHWH che li santifico» (Lev. 21,8). Per questo motivo, il sacerdote deve distinguere tra ciò che è santo e ciò che è profano (Lev. 22,2; 22,9), e non contaminarsi con malattie, impurità o la morte (Lev. 21,1-4). Il principio trova la sua espressione massima nella figura del sommo sacerdote, il quale porta la responsabilità suprema davanti a Dio (Lev. 21,10-15). Alla luce di questa consacrazione devono essere comprese le leggi contenute nei capitoli 21—22.
Il capitolo 23 espone il calendario annuale di Israele, strutturato attorno al numero sette, simbolo di compiutezza. Il ritmo del sette non regola solo la settimana, ma anche gli anni e i cicli della vita nazionale. La sequenza delle feste si apre con lo Shabbat settimanale (Lev. 23,3), giorno di riposo e lode in memoria della creazione (cfr. Es. 20,8-11). Da questa cornice si sviluppano le feste di primavera: la Pasqua (Pesach), memoriale della redenzione dall’Egitto (Lev. 23,5; cfr. Es. 12,1-28); la festa degli Azzimi, che dura sette giorni (Lev. 23,6-8); e le Primizie, quando si offriva il primo covone d’orzo (Lev. 23,9-14). Queste feste celebrano la grazia del Dio del patto e la nuova vita donata a Israele.
Segue la Pentecoste (Shavuot), celebrata sette settimane dopo le Primizie (Lev. 23,15-21), e le tre feste autunnali: la festa delle Trombe (Lev. 23,23-25), il Giorno delle Espiazioni (Yom Kippur, Lev. 23,26-32) e la festa delle Capanne (Sukkot, Lev. 23,33-43). È evidente che non si tratta di invenzioni umane, ma di appuntamenti fissati dal Signore stesso (Lev. 23,2), che scandisce il tempo richiamando il Suo popolo alla festa.
Il principio del sette attraversa tutta la struttura: sette feste annuali con sette sabati solenni; la Pentecoste dopo sette settimane; le ultime solennità nel settimo mese. Inoltre, ogni settimo anno era sabbatico, un anno di riposo anche per la terra (Lev. 25,1-7), e dopo sette cicli di anni sabbatici veniva celebrato il Giubileo (49 anni + 1, Lev. 25,8-13), pienezza della redenzione donata per grazia.
In breve, lo Shabbat non si limita a scandire il ritmo settimanale, ma abbraccia tutta la vita d’Israele. È un distacco dal lavoro per consacrarsi a Dio nella lode comunitaria; è giorno benedetto e dono per l’uomo (cfr. Gen. 2,2-3; Es. 31,13-17). Lo Shabbat ricorda la creazione e il riscatto dalla schiavitù (Deut. 5,15), ed è segno di alleanza. Nel pensiero ebraico esso si collega alla speranza messianica, annuncio del Regno del Creatore. Per i credenti in Yeshua, questo ritmo trova compimento nel memoriale della risurrezione, vissuto nello spirito apostolico non come vincolo legalista, ma come libertà cristiana (Rom. 14,5-6; Col. 2,16-17).
Haftarah (Ezechiele 44,15-31)
La fedeltà dei sacerdoti di Sadoc
Il profeta Ezechiele presenta i compiti e i privilegi riservati ai sacerdoti discendenti da Sadoc (da tzadoq), un ramo della linea levitica. Sadoc fu stabilito come sacerdote al tempo di Salomone (1 Re 2,35), e i suoi discendenti si distinsero per la loro fedeltà al Signore, mentre il resto del popolo cadeva nel peccato. Per questa loro lealtà, Dio dichiara che saranno ristabiliti in una posizione d’onore: essi si avvicineranno al Suo altare per offrire il grasso e il sangue (Ez. 44,15), entreranno nel santuario e svolgeranno il loro ministero come mediatori tra Israele e il suo Dio (Ez. 44,16).
Molte prescrizioni che Ezechiele riporta richiamano le leggi date da Mosè. I sacerdoti dovevano indossare abiti di lino e non di lana, per non provocare sudore (Ez. 44,17-18; cfr. Es. 28,40-43). Al termine del servizio, prima di uscire verso il cortile esterno, dovevano deporre i paramenti sacri per non trasferire al popolo ciò che era riservato al culto (Ez. 44,19). Era inoltre loro vietato bere vino prima di entrare nel santuario, così da non compromettere la lucidità nel servizio (Ez. 44,21; cfr. Lev. 10,8-9). Anche riguardo al matrimonio erano previste restrizioni: non potevano sposare vedove o divorziate, ma solo vergini d’Israele o vedove di altri sacerdoti (Ez. 44,22; cfr. Lev. 21,13-14).
Oltre al servizio liturgico, i sacerdoti di Sadoc dovevano istruire il popolo a distinguere tra ciò che è santo e ciò che è profano, tra puro e impuro (Ez. 44,23). Fungevano anche da giudici, applicando le leggi di Dio, e osservavano scrupolosamente le prescrizioni riguardanti feste e sabati (Ez. 44,24). Non potevano contaminarsi entrando in contatto con i morti, se non in casi strettamente legati alla famiglia più stretta (Ez. 44,25-27; cfr. Lev. 21,1-4).
Infine, Ezechiele ribadisce che questi sacerdoti non avranno un’eredità terrena in Israele: «Io sarò la loro eredità» dice YHWH (Ez. 44,28; cfr. Num. 18,20). Dio stesso provvederà per loro mediante le offerte, i sacrifici e le decime che il popolo porterà al Santuario (Ez. 44,29-31). La loro vita dipenderà interamente dalla fedeltà di Dio, segno di una consacrazione totale e permanente a Lui.
Besorah (Matteo 26,59-66)
Il processo religioso davanti a Caifa
Yeshua fu condotto dapprima da Anna, già sommo sacerdote e suocero di Caifa (Giov, 18,13), per poi essere legato e portato nella casa di quest’ultimo (v. 24). Intanto, gli scribi e gli anziani, cioè il Sinedrio, si erano già radunati presso Caifa con l’intento di processarlo (Mt. 26,59). La cospirazione era premeditata e ben organizzata.
Il processo avvenne tra la mezzanotte e il primo canto del gallo (Mc. 14,30), ma una tale udienza era illegale secondo la prassi giudaica: i processi penali non potevano svolgersi di notte, né tantomeno i processi capitali, che si tenevano soltanto di giorno, presso il Tempio e in pubblico:
Talmud Babilonese: Mishnah, Sanhedrin 4,1
«Nei casi di diritto capitale, il tribunale giudica durante il giorno e conclude le deliberazioni ed emette la sentenza solo durante il giorno.
[...]
Nei casi di diritto capitale, il tribunale può concludere le deliberazioni ed emettere la sentenza anche lo stesso giorno per assolvere l'imputato, ma deve attendere il giorno successivo per dichiararlo responsabile»
Il Sinedrio, infatti, era la suprema corte d’Israele, convocata nel Tempio, fatta eccezione per lo Shabbat e i giorni festivi. Inoltre, non aveva autorità per eseguire condanne a morte (Giov. 18,31), ma proprio quegli uomini che stavano giudicando Yeshua erano gli stessi che avevano tramato contro di Lui (Mt. 26,4).
Nonostante fossero stati convocati falsi testimoni, non si riuscì a trovare un’accusa concorde (Mt. 26,60; cfr. Mc. 14,56-59). Yeshua, di fronte a tali accuse, non rispose nulla, adempiendo alla profezia: «Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la bocca» (Is. 53,7; cfr. Mt. 26,63a). Allora Caifa lo costrinse a rispondere, pronunciando la formula solenne di giuramento:
Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se tu sei il Messia, il Figlio di Dio (Mt 26,63b)
La risposta di Yeshua fu inequivocabile: non solo affermò di essere il Messia, ma dichiarò anche che avrebbero visto «il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nuvole del cielo» (Mt. 26,64; cfr. Sal. 110,1; Dan. 7,13). Era una chiara dichiarazione della Sua deità e della Sua autorità divina. Caifa comprese bene il significato di quelle parole: stracciandosi le vesti, lo accusò di bestemmia (Mt. 26,65) e proclamò che non vi fosse più bisogno di ulteriori testimoni. Il Sinedrio, allora, lo dichiarò reo di morte (Mt. 26,66).
In realtà, l’atto di Caifa fu falso e ipocrita: simulando indignazione, egli manifestava soltanto la propria soddisfazione per aver finalmente trovato un capo d’accusa con cui condannare Yeshua.
Conclusione
Fin dagli albori della creazione, quando il peccato fece il suo ingresso nella vita degli uomini (Gen. 3,6-7; Rom. 5,12), Dio non ha mai smesso di richiamare il Suo popolo alla santità e all’ubbidienza. Le leggi, i Suoi Moedim (appuntamenti fissati), le istituzioni date non soltanto ai sacerdoti ma a tutto Israele, hanno un unico filo conduttore: la santità (Lev. 19,2; 20,7). Queste prescrizioni non sono venute meno, e i Suoi appuntamenti non sono decaduti; tuttavia, noi che crediamo in Yeshua li celebriamo non in chiave legalista, ma nella libertà dello Spirito (Col. 2,16-17; Gal. 5,1). Ancora oggi Dio ci chiama a una vita separata, a non conformarci a questo mondo (Rom. 12,2), ma a testimoniare la nostra appartenenza a Lui mantenendo accesa la luce proprio là dove luce non c’è (Mt. 5,14-16).
Il Signore ci comanda di mantenerci totalmente santi, custodendo un cuore umile e puro. Non dobbiamo avere di noi stessi un concetto troppo alto (Rom. 12,3), rischiando di cadere nell’adulazione di noi stessi e permettere all’orgoglio di mettere radici (Prov. 16,18). È quanto accadde agli anziani del Sinedrio, i quali, accecati dall’orgoglio, arrivarono a cospirare per mettere a morte il Maestro (Mt. 26,59-66). L’eccessiva convinzione di sé può innalzare su un piedistallo e portare a rinnegare e condannare nuovamente il Divino Salvatore (Eb. 6,6).
Per questo, armati di santo timore (Prov. 1,7; Eb. 12,28), ascoltiamo e ubbidiamo alla voce di Dio che ancora oggi ci ordina: «Siate santi, perché Io sono santo» (Lev. 11,44; 1 Pt. 1,15-16).
Ascolta la parashah di Daniele Salamone (06/05/2023)