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Parashat Masseh (Numeri 33,1—36,13)

Dono di eredità e frutto di fedeltà
15 novembre 2025 di
Parashat Masseh (Numeri 33,1—36,13)
Giusy Conforto
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Introduzione

Alla fine del cammino nel deserto, poco prima che Israele entri nella Terra Promessa, la Parashah ci mostra un popolo chiamato a ricevere un’eredità che non si è guadagnato, ma che YHWH dona per pura grazia (Num. 33–36). La Haftarah ci ricorda che questa grazia può essere tradita: Giuda, un tempo popolo santo e amato, si allontana dalla «sorgente d’acqua viva» per seguire idoli che non salvano (Ger. 2,4-13). Nella Besorah, Yeshua si presenta a un Israele pieno di foglie – molta apparenza religiosa – ma privo del frutto che Dio cerca, e maledice il fico sterile come segno di un giudizio reale sulla sterilità spirituale (Mc. 11,11-14.20-21).

Insieme, questi testi ci chiamano a contemplare il dono dell’eredità, a prendere sul serio il pericolo dell’infedeltà e a lasciare che lo Spirito produca in noi quei «primi frutti» che YHWH desidera trovare nella nostra vita.


Parashah (Numeri 33,1–36,13)

La Terra Promessa come eredità e responsabilità

Mosè, prima di morire, prepara i figli di Israele al possesso della Terra e alla loro nuova vita in essa. Il capitolo 33 ripercorre tutte le tappe del cammino dall’uscita dall’Egitto fino alle pianure di Moab (33,1-49): ogni sosta diventa memoria concreta della fedeltà di YHWH, che ha guidato il popolo passo dopo passo, anche nelle ribellioni e nelle cadute. Ora, alle soglie della Terra, non si tratta solo di entrare, ma di imparare a viverci secondo la Torah.

Gli ultimi capitoli di Numeri offrono dettagli fondamentali relativi al futuro. Anzitutto, il popolo deve conoscere i confini della Terra che YHWH dona come eredità (34,1-15). Non è Israele a scegliere dove andare: è Dio che delimita i territori secondo i Suoi buoni propositi. Poi va pianificata la presenza dei leviti ovunque nel territorio, perché l’insegnamento della Torah non resti confinato in pochi centri, ma sia accessibile a tutti (35,1-8). Infine, vanno regolati con precisione i casi di omicidio volontario e involontario tramite le città di rifugio (35,9-34), e si conclude con una precisazione importante sulle leggi dell’eredità per evitare che il territorio assegnato a una tribù passi a un’altra (36,1-12; cfr. 27,1-11).

«Questo sarà il paese che vi toccherà come eredità» (34,2). È una parola chiara: la Terra è «toccata in sorte», ricevuta e non conquistata. È un dono liberamente elargito da Dio e non guadagnato dal popolo. Questo ennesimo dono di sola grazia si ricollega alla promessa delle origini, quando il Signore disse ad Abraamo: «Và via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e và nel paese che io ti mostrerò» (Gen. 12,1). La storia dell’eredità inizia con la chiamata di un uomo, Abraamo, e ora si compie nell’ingresso di un intero popolo.

Dio delimita i confini della Terra secondo i Suoi piani (Num. 34,3-12). La Terra d’Israele è relativamente piccola, ma feconda e capace di produrre in abbondanza (Deut. 8,7-10): è come un giardino di Dio affidato al Suo popolo, perché lo coltivi e lo custodisca alla luce della Torah. In questo quadro si inserisce il ruolo particolare dei Leviti. L’eredità loro assegnata non è un territorio compatto, ma città sparse con i pascoli attorno (Num. 35,1-5). Ogni terreno ha dimensioni precise e simmetriche; in questo modo c’è spazio sufficiente per il bestiame e, soprattutto, la presenza dei Leviti viene distribuita equamente ovunque nel paese. Nessuno abiterà lontano dall’insegnamento della Torah: la Parola di Dio sarà vicina, tangibile, incarnata in uomini e famiglie che vivono in mezzo al popolo.

Le città levitiche sono già nelle mani delle dodici tribù e vengono da esse donate ai Leviti (35,6-8). YHWH stabilisce così una prassi di generosa interdipendenza: il popolo di Dio gode del privilegio di avere vicino coloro che insegnano, «essi insegnano i Tuoi statuti a Giacobbe e la Tua Toah a Israele» (Deut. 33,10), e chi istruisce nella Parola riceve un giusto sostentamento da chi ascolta. L’eredità non è chiusa, “privata”: è da vivere nella reciprocità, nella condivisione e nel servizio.

La sezione finale del libro affronta un altro nodo importante: il possibile passaggio di eredità da una tribù all’altra. Il caso delle figlie di Selofead viene ripreso per evitare che, attraverso i matrimoni, l’eredità assegnata a una tribù vada a confondersi con quelle delle altre (36,1-12; cfr. 27,1-11). La soluzione trovata – che le figlie eredi si sposino all’interno del loro clan – mostra quanto YHWH tenga alla stabilità e alla giustizia nella distribuzione della Terra. L’eredità non è solo una questione di diritti individuali, ma di fedeltà alle promesse di Dio verso l’intero popolo.

In breve, la Parashah unisce due poli: la grazia di un’eredità ricevuta e la responsabilità di viverla secondo la Torah. YHWH dona, ma il popolo è chiamato a custodire il dono, a mantenere puri i confini – non solo geografici, ma spirituali – e a vivere nella reciproca cura fra tribù, leviti e famiglie.


Haftarah (Geremia 2,4-28)

L’amore tradito e la vigna degenerata

Un tempo Giuda amava YHWH: era un popolo santo, consacrato, e «chiunque lo divorava si rendeva colpevole, e la calamità piombava su di loro» (Ger. 2,3). L’immagine è forte: chi toccava Israele toccava il suo Dio. Ma, nella parola profetica di Geremia, quella storia d’amore si è incrinata. Il calore della relazione con YHWH si è raffreddato, la memoria delle Sue opere si è offuscata.

Il Signore rimprovera non solo il popolo in generale, ma le sue guide:

I sacerdoti non hanno detto: “Dov’è YHWH?”; quelli che trattano la Torah non Mi conoscono; i pastori si sono ribellati contro di Me; i profeti hanno profetizzato per Ba'al e sono andati dietro a cose che non giovano (2,8)

Sacerdoti, maestri della Torah, pastori e profeti: tutti, in modi diversi, hanno smarrito il centro. Chi avrebbe dovuto ricordare e custodire l’alleanza è diventato esso stesso parte del problema.

Giuda ha rivolto lo sguardo verso altri dèi, peccando di idolatria e rinnegando le leggi divine. YHWH denuncia uno scambio tragico: «Il Mio popolo ha cambiato la sua gloria con ciò che non giova» (2,11). Invece di attingere alla «sorgente d’acqua viva», ha scavato per sé «cisterne rotte, che non tengono l’acqua» (2,13). Le immagini parlano da sole: si abbandona una fonte fresca, sicura, per affidarsi a pozzi crepati e vuoti.

Dio ricorda di aver piantato Giuda come «una vigna scelta, di seme genuino» (2,21). L’immagine della vigna richiama la cura, la pazienza, il lavoro di chi prepara il terreno, pianta, pota, attende il frutto (cfr. Is. 5,1-7). Ma con il tradimento e l’idolatria, quella vigna è diventata selvaggia, «una vigna degenerata» (Ger. 2,21), piena di tralci inutili. Al posto del frutto della giustizia e della fedeltà, crescono l’ingiustizia e il culto di dèi stranieri.

Il giudizio di Dio non è una reazione impulsiva, ma la conseguenza logica di un rifiuto ostinato. Israele sarà esposto alla violenza di nazioni straniere e alla schiavitù (2,14-17; cfr. 25,8-11). Il popolo che un tempo godeva della protezione di YHWH si troverà «ridotto in preda, preda dei leoni» (2,15), proprio da quelle nazioni e da quei dèi nei quali aveva riposto la sua fiducia. Le grida di innocenza («Io non ho peccato»; 2,35) non possono cancellare il peso dell’infedeltà.

La Haftarah, letta accanto alla Parashah, diventa un monito severo: la Terra può essere donata, ma può essere anche perduta; l’eredità può essere ricevuta, ma può essere sperperata nel momento in cui il popolo si allontana dal suo Dio. Dietro le parole di Geremia si intravede l’eco dell’ingresso nella Terra: lo stesso YHWH che un giorno aveva condotto Israele nel suo «giardino» (Num. 33–34; Ger. 2,6-7) ora lo rimprovera perché quel giardino è stato contaminato dall’idolatria.


Besorah (Marco 11,11-25)

Il fico sterile e il desiderio di frutto

Negli ultimi versetti del capitolo precedente, Yeshua entra a Gerusalemme e nel Tempio, osserva ogni cosa e poi esce con i Dodici verso Betania (11,11). Il grido «Osanna! Benedetto Colui che viene nel Nome del Signore!» (11,9) risuona ancora nell’aria, ma Yeshua sa che quel giubilo superficiale si trasformerà presto nel «Crocifiggilo!» (15,13-14). Sotto la facciata della festa, Egli vede già la sterilità del cuore.

L’episodio del fico sterile, incastonato fra le due visite al Tempio (11,12-14.15-19.20-21), diventa una parabola vivente su Israele e, più in generale, su ogni religiosità senza frutto. Vedendo da lontano un fico pieno di foglie, Yeshua si avvicina «per vedere se vi trovasse qualcosa» (11,13). L’evangelista nota che «non era la stagione dei fichi» (11,13), e questo ha creato talvolta perplessità: perché maledire un albero se non è ancora tempo?

Il fico, Israele e la cattiva eremeneutica

Il racconto del fico seccato (Mc. 11,12-14.20-21; Mt. 21,18-22) non è una maledizione contro Israele, ma una denuncia profetica di Yeshua contro la religiosità ipocrita del tempo: un sistema fertile di apparenze, ma sterile di giustizia, verità e misericordia.

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La botanica del fico aiuta a comprendere il gesto.
Gli alberi di fico producono un frutto primaticcio, commestibile, che compare poco prima delle foglie. Questo primo frutto è come una promessa del raccolto successivo. Se compaiono le foglie ma manca questo frutto primaticcio, significa che l’albero non porterà frutto nemmeno nella stagione normale. In altre parole, un fico pieno di foglie ma senza primizia è un albero che promette, ma non mantiene.


Quando Yeshua viene in mezzo al Suo popolo, trova molte foglie: una ricca tradizione, un culto intenso, parole e professione di fede. Ma non trova il frutto che il Padre cerca: la giustizia, la misericordia, la fede (cfr. Mt. 23,23). Il suo avere fame (Mc. 11,12) non è solo un dettaglio narrativo: esprime il desiderio profondo di Dio di “cibarsi” del frutto della Sua vigna, proprio come i profeti avevano denunciato la vigna che non produceva (Is. 5,1-7; Ger. 2,21).

La maledizione del fico («Nessuno mangi mai più frutto da te in eterno!», Mc. 11,14) anticipa anche il giudizio che si abbatterà, a distanza di anni, su Israele e sul Tempio (11,15-19; cfr. 13,1–2). Non significa che Israele sia condannato per sempre a rimanere sterile: le Scritture annunciano un tempo in cui il popolo tornerà a Dio e sarà restaurato (Rom. 11,25-27). Ma il segno del fico è serio: Dio prende sul serio la sterilità spirituale, soprattutto quando è mascherata da un’abbondanza di foglie religiose.

Allo stesso tempo, il messaggio di Yeshua tocca direttamente anche noi. Il pericolo non è solo quello di «predicare la Parola di Dio con le labbra» ma di restare senza una fede viva, senza comunione reale con YHWH. Yeshua ci chiama a una relazione che si esprime in fiducia («Abbiate fede in Dio», Mc. 11,22), in preghiera perseverante (11,24) e in perdono reciproco (11,25). È questo il frutto primaticcio che il Signore desidera trovare in coloro che dicono di appartenergli: una vita che prega, che crede, che perdona, che mette in pratica la Parola ogni giorno.


Conclusione

Ogni passo della Torah ci invita a riflettere sul cuore di Dio: fin dagli inizi, YHWH ha avuto solo pensieri di amore, cura e benevolenza per le sue creature (Ger. 29,11). Le Sue promesse, nonostante i tradimenti del Suo popolo, si sono sempre adempiute: Egli ha condotto Israele nella Terra Promessa, lo ha circondato della Sua Torah, lo ha custodito e protetto (Num. 33–36; Ger. 2,6-7). Ma l’uomo dimentica facilmente, e non riconosce che tutti i beni di cui gode sono doni della Sua grazia.

Ancora oggi, la compassione di Dio non viene meno, in modo particolare per tutti coloro che appartengono a Yeshua, il Messia, e hanno creduto nel Suo sacrificio (Rom. 8,32; Ef. 2,8-9). Come allora Israele fu condotto verso la Terra Promessa, così oggi Dio ci guida verso la meta ultima: stare alla Sua presenza e vivere con Lui per sempre (1 Tess. 4,16-17; Ap. 21,3-4). Ma proprio mentre camminiamo verso questa speranza, la Parashah, la Haftarah e la Besorah ci ricordano che YHWH è anche un Dio giusto, che prende sul serio la nostra risposta.

Siamo chiamati a non essere come quel fico sterile, un bell’albero pieno solo di foglie (Mc. 11,13-14.20-21): non basta proclamare, insegnare, discutere la Parola se la nostra fede resta superficiale, senza intimità quotidiana con il Signore. Non basta avere un’eredità se non la custodiamo. Il rischio di Giuda – dimenticare le opere di Dio, scambiare la sorgente d’acqua viva con cisterne rotte (Ger. 2,13) – resta attuale anche per noi.

Perciò, l’invito è concreto:

  • Lascia che lo Spirito di Dio esamini il tuo cuore alla luce di questi testi.
  • Chiedi a YHWH di mostrarti dove ci sono solo foglie e poco frutto, dove l’eredità ricevuta per grazia non è ancora diventata obbedienza, fiducia e amore.
  • Domandagli di suscitare in te quel «frutto primaticcio» – una fede vissuta, una preghiera sincera, un perdono reale, una vita guidata dalla Torah di Dio e dalla Parola di Yeshua – che Egli desidera trovare in te (Gal. 5,22-23; Giov. 15,8).

Così, come popolo e come singoli, potremo essere davvero alberi fruttiferi nel giardino del Signore, portando molto frutto alla gloria del Suo Nome.


Ascolta la Parashah di Daniele Salamone del 14/07/2023


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