Introduzione
Il 7 settembre 2025, la Chiesa Cattolica ha proclamato santo il giovane Carlo Acutis durante una solenne Messa di canonizzazione a Roma. Carlo Acutis, morto nel 2006 a causa di una leucemia fulminante, è divenuto così – secondo la terminologia cattolica – il primo “santo millennial”, venerato pubblicamente dall’intera comunità ecclesiale. Questo evento riporta all’attenzione un tema teologico e storico di grande rilievo: l’autorità della Chiesa di dichiarare “santi” alcuni fedeli defunti. La canonizzazione – ovvero la dichiarazione ufficiale da parte del Papa che un individuo deceduto è certamente in Paradiso ed è proposto alla venerazione di tutti i fedeli – costituisce una pratica consolidata nella Chiesa Cattolica e Ortodossa, ma rigettata dalle Chiese protestanti. Queste ultime, infatti, non riconoscono ad alcuna autorità ecclesiale il potere di canonizzare, sostenendo che il destino eterno delle persone è conosciuto solo da Dio e che biblicamente il termine santo si riferisce a ogni vero credente rigenerato per grazia.
Scopo di questo articolo è esaminare i fondamenti storici di tale pratica, il suo sviluppo nel contesto cattolico, e soprattutto la sua tenuta biblica. In particolare, discuteremo se e dove la Bibbia conferisca alla Kehillah o agli apostoli l’autorità di dichiarare qualcuno santo; analizzeremo il concetto biblico di santità e di martirio, confrontandolo con le prassi canoniche odierne; e valuteremo criticamente le implicazioni teologiche di un sistema che, secondo la prospettiva protestante, rischia di attribuire all’istituzione ecclesiastica prerogative spettanti solo a Dio.
È importante premettere che questa critica non intende minimamente giudicare la fede o la condotta personale di figure come Carlo Acutis, né di altri uomini e donne di devozione profonda. I credenti evangelici riconoscono e onorano la memoria di chi ha vissuto una vita di fede esemplare; tuttavia, il focus della nostra analisi è il sistema dottrinale e pratico attorno alla canonizzazione e alla venerazione dei santi nella Chiesa Cattolica. In altre parole, non viene contestata la sincerità della spiritualità dei singoli canonizzati, bensì l’autorità e la legittimità biblica dell’atto di “santificarli” ufficialmente. Solo Dio, secondo la Scrittura, può santificare e giustificare pienamente l’uomo (Rom. 8,33; 1 Cor. 6,11); e si vedrà come la pretesa ecclesiastica Romana di dichiarare santi e martiri possa essere letta come un’innovazione post-biblica priva di mandato divino.
La canonizzazione nella Chiesa Cattolica
Nel contesto cattolico, canonizzare significa inserire un defunto nell’“elenco dei santi” (canon), dichiarandolo ufficialmente degno di culto pubblico universale. Tale dichiarazione pontificia implica alcune affermazioni teologiche di grande portata: si proclama infatti che quella persona è certamente in Paradiso (quindi salvata e glorificata), che la sua vita è un modello di virtù cristiane, e che i fedeli possono venerarla e invocarla nelle preghiere affinché interceda presso Dio. A differenza della semplice beatificazione (che limita il culto a livello locale o diocesano), la canonizzazione estende la venerazione del santo a tutta la Chiesa cattolica. Storicamente, questa prassi nasce dal culto antico dei martiri e dei confessori, ma evolve in un procedimento giuridico sempre più centralizzato nel papato.
Origini e sviluppo storico
Nei primi secoli del cristianesimo non esisteva nulla di paragonabile al processo odierno di canonizzazione. La Kehillah primitiva riservava il titolo di santo soprattutto ai martiri, ossia a coloro che testimoniarono la fede fino a morirne durante le persecuzioni (la parola greca mártus significa proprio “testimone”). La venerazione dei martiri avveniva spontaneamente tra i fedeli: i nomi dei testimoni uccisi venivano ricordati e onorati negli anniversari del loro martirio, spesso presso le loro tombe, ma senza alcuna procedura formale o decreto ecclesiastico. In seguito, con la fine delle persecuzioni (Editto di Milano, 313 d.C.), iniziarono a essere onorati anche i cosiddetti confessori: credenti che, pur non essendo stati uccisi per la fede, avevano dato prova di straordinaria santità con una vita ascetica, penitenziale o di sofferenza per il Messia. Anche questi venivano venerati per acclamazione popolare, in modo comunitario e devozionale, senza bisogno di riconoscimenti ufficiali. La Kehillah dei primi secoli, poco strutturata gerarchicamente, non sentiva la necessità di “accertare” formalmente la santità di tali persone: le loro virtù e, nel caso dei martiri, la loro morte cruenta per il Vangelo erano fatti notori e pubblici, evidenti a tutti.
È solo a partire dall’Alto Medioevo che compaiono i primi abbozzi di processi di canonizzazione istituzionali. Tra il VI e l’XI secolo, con la cristianizzazione dell’Europa e il venir meno di martiri contemporanei, la figura del santo si diversifica ulteriormente: il popolo cristiano inizia a percepire i santi non solo come esempi da imitare, ma anche come potenti intercessori presso Dio, spesso legando la santità all’elemento del miracolo. In questo periodo, la procedura per riconoscere un santo rimaneva locale e affidata ai vescovi diocesani: si parla di “canonizzazione vescovile” quando un vescovo approvava un culto locale dopo un minimo di inchiesta sulla vita e i miracoli attribuiti al candidato, spesso raccogliendo la Vita (biografia agiografica) del defunto. In altre parole, fino attorno al X secolo, il diritto di dichiarare santo qualcuno spettava di fatto ai singoli vescovi nelle loro giurisdizioni, spesso sulla scia della vox populi (la devozione popolare spontanea). Questa pratica locale, però, non era immune da problemi: a volte l’entusiasmo popolare portava ad abusi o ingenuità (per esempio culto di personaggi leggendari), e alcuni vescovi si mostrarono negligenti nel verificare l’autenticità delle virtù e dei miracoli prima di autorizzare il culto. Ciò suscitò, col tempo, l’intervento della Sede Apostolica per garantire maggiore uniformità e rigore nelle canonizzazioni.
L’accentramento papale
Un passo decisivo avvenne alla fine del X secolo. Nel Sinodo di Roma del 993, Papa Giovanni XV procedette alla canonizzazione di Udalrico (Ulrico), vescovo di Augusta, accogliendo ufficialmente il suo culto per tutta la Chiesa. È questo il primo esempio storico documentato di canonizzazione papale estesa oltre i confini locali. Da quel momento in poi, specialmente tra XI e XIII secolo, i Papi iniziarono ad affermare il proprio diritto esclusivo di autorizzare il culto dei santi nell’intera Cristianità. Papa Alessandro III, nel XII secolo, rivendicò esplicitamente che spettava al Romano Pontefice il "potere" di riconoscere ufficialmente un santo, inserendo i processi di canonizzazione tra le cause maggiori riservate alla Santa Sede. Questa norma fu confermata da Gregorio IX nel 1234, entrando a far parte del diritto canonico dell’epoca. In parallelo, furono via via codificati i criteri e le fasi del processo: si richiedevano prove delle virtù eroiche del candidato, testimonianze affidabili, e soprattutto l’accertamento di miracoli attribuiti alla sua intercessione come sigillo divino sulla santità. Alla canonizzazione papale fu conferita una sempre maggiore autorevolezza dottrinale: nella teologia cattolica, quando il Papa proclama un santo, lo fa con l’ausilio dell’assistenza infallibile dello Spirito Santo, in quanto tale atto è considerato parte del magistero universale (pur non riguardando direttamente verità di fede o morale). Tommaso d’Aquino già nel XIII secolo affermava che «è cosa pia credere che tale giudizio [di canonizzazione] sia infallibile». Ne consegue che, per la dottrina cattolica, il Papa non “rende” santa una persona, ma dichiarandola tale ne garantisce senza errore la presenza in cielo – come se certificasse, con autorità e certezza divine, una realtà spirituale oggettiva.
Il significato teologico
Dal punto di vista cattolico, ogni canonizzazione è intesa come un dono di Dio alla Chiesa. L’atto di elevare qualcuno agli onori degli altari è occasione di gioia perché si considera che Dio stesso, attraverso la santità di quella vita, fa brillare in modo speciale la Sua grazia a edificazione dei fedeli. Nella teologia cattolica vige il principio che la santità è dono di Dio solo; tuttavia la Chiesa, con prudenza e responsabilità, ritiene di poter riconoscere ufficialmente tale dono in alcuni suoi figli e figlie esemplari. La procedura odierna è lunga e complessa, richiedendo di norma almeno un miracolo provato (due nel caso di non martiri) e vari gradi: Servo di Dio, Venerabile, Beato, fino a Santo. Il Papa ha l’ultima parola nel decretare la canonizzazione, dopo un iter investigativo condotto dal Dicastero delle Cause dei Santi. In casi di martirio, la procedura è semplificata poiché non si richiede un miracolo: è sufficiente accertare che la morte sia avvenuta in odium fidei, per odio alla fede. Nel caso invece di persone morte per cause naturali o malattie, l’esame verte sulle virtù eroiche e sui miracoli postumi attribuiti alla loro intercessione.
In definitiva, secondo la Chiesa Cattolica, canonizzare un santo significa dichiarare con certezza morale e spirituale che quell’anima è in cielo e proporla all’intera comunità come intercessore e modello.
La posizione protestante a confronto
Le Chiese della Riforma e, in generale, le comunità evangeliche hanno sempre guardato con scetticismo e disapprovazione a questa evoluzione. Come evidenziato, nessuna Chiesa protestante pratica la canonizzazione formale dei santi; anzi, si rifiuta il concetto stesso che un’autorità umana possa dichiarare infallibilmente la salvezza e la gloria celeste di qualcuno. Per i protestanti (evangelici e messianici), il fatto che qualcuno sia o meno in Paradiso è un giudizio che spetta unicamente a Dio, il quale è il solo che «conosce quelli che sono Suoi» (2 Tim. 2,19). Anche la Chiesa Anglicana, pur mantenendo molti aspetti della tradizione cattolica, ha abbandonato il sistema di canonizzazioni post-medievale, riconoscendo al più la commemorazione di figure sante nei calendari liturgici, ma senza proclamarle con atti di governo ecclesiastico. Questo approccio protestante affonda le radici in una diversa comprensione di cosa sia la santità e di chi siano i santi, come vedremo nella sezione seguente.
Il concetto biblico di “santo” e di santità
Alla base della controversia vi è una divergente definizione di “santo”. Nella prospettiva protestante, che dichiara di rifarsi direttamente alle Scritture Apostoliche, “santo” è ogni credente autentico nel Messia, non una categoria ristretta di super-cristiani canonizzati. Questa comprensione deriva dall’uso neotestamentario del termine greco hagios, spesso tradotto santo o santificato, il cui significato letterale è «messo a parte» (consacrato a Dio). Gli autori delle Scritture Apostoliche chiamano “santi” tutti i membri del popolo di Dio: per esempio, l’apostolo Paolo indirizza le sue lettere «ai santi che sono in Efeso» o «ai santi che sono in Roma» (Ef. 1,1; Rom. 1,7), riferendosi chiaramente a comunità di cristiani viventi, indistintamente. Non era un titolo onorifico riservato dopo la morte, ma la condizione presente di coloro che, mediante la fede nel Messia Yeshua, sono stati giustificati e santificati dalla grazia (1 Cor. 6,11; Eb. 10,10). In altre parole, nel vocabolario biblico tutti i credenti nati di nuovo sono santi perché separati dal mondo e consacrati a Dio in virtù dell’opera redentrice del Messia. La santità, dunque, non è anzitutto un riconoscimento postumo per azioni eroiche, ma uno status spirituale che deriva dall’appartenenza al Messia (1 Pt. 2,9): «Voi siete [...] una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato». Ogni cristiano è chiamato a vivere in modo santo (Ef. 1,4; 1 Pt. 1,15-16), ma ciò avviene nell’ordinarietà della fede e non implica affatto essere elevato su un piedistallo particolare in seno alla Kehillah.
Da questa base biblica, i protestanti deducono che non esista un’élite di “santi” distinguibile dal resto dei credenti. Certo, la Scrittura stessa testimonia che alcuni cristiani hanno brillato per fede e opere in maniera speciale. Eb. 11, per esempio, offre una galleria di testimoni illustri (Abele, Noè, Abraamo, Mosè, Davide, ecc.) quale incoraggiamento per i credenti: una «nuvola di testimoni» (Eb. 12,1) il cui esempio di fede deve spronarci. La Kehillah fa bene a ricordare con gratitudine uomini e donne di Dio del passato – i martiri apostolici, i riformatori, missionari coraggiosi, benefattori, ecc. – e a trarre ispirazione dal loro esempio. In ambito evangelico, non è insolito parlare di “eroi della fede” o “padri spirituali” riferendosi a figure eminenti della storia cristiana. Ma questo non implica attribuire loro uno status ontologico diverso né tanto meno rivolgere loro culto o preghiere. A differenza della nozione cattolica di santi canonizzati (pochi eletti dotati di meriti eccezionali e poteri intercessori particolari), la nozione protestante è inclusiva ed egualitaria: tutti coloro che hanno fede sono santi agli occhi di Dio, non per proprio merito, ma perché dichiarati giusti nel Messia (sola fide). Come scrive Paolo,
[Dio] ci ha salvati e ci ha chiamati con una santa chiamata, non a motivo delle nostre opere, ma secondo il Suo proposito e la grazia (2 Tim. 1,9)
Ne consegue che il semplice credente che ha affidato la sua vita al Messia è santo quanto il grande apostolo o il celebre martire, perché la santità è dono di Dio e non trofeo umano (Ef. 2,8-9).
Un ulteriore aspetto biblico rilevante è che solo Dio conosce infallibilmente lo stato di grazia di ogni persona. La Bibbia avverte i credenti dal giudicare prematuramente o definitivamente il destino altrui: «Non giudicate nulla prima del tempo [...] il Signore metterà in luce ciò che è nascosto nelle tenebre» (1 Cor. 4,5). L’uomo vede l’esteriore, ma Dio solo conosce il cuore (1 Sam. 16,7) e sa con certezza chi persevererà sino alla fine nella fede. Questo principio alimenta la riserva protestante verso l’idea di poter dichiarare con certezza assoluta che una persona defunta sia in cielo. Mentre la teologia cattolica insegna che il Papa, avvalendosi dell’assistenza dello Spirito Santo, può fare tale dichiarazione senza errore, la teologia evangelica risponde che nessun uomo, neppure il più santo o autorevole, ha ricevuto dal Messia il dono di onniscienza sullo stato delle anime. Solo nel giorno del giudizio Dio renderà manifesta la sorte eterna di ciascuno (Mt. 25,31-46; Ap. 20,11-15). Fino ad allora, la vera Kehillah può certamente sperare e credere che i fedeli defunti «dormano nel Signore» e siano accolti presso di Lui (1 Tess. 4,14), ma non le è stato conferito il potere di garantire ciò in modo definitivo per singole persone al di fuori dell’attestazione scritturale. Per esempio, la Scrittura ci attesta la salvezza di personaggi come i patriarchi, gli apostoli, il ladrone pentito sulla croce (Lc. 23,43), perché è Parola di Dio. Invece, proclamare santa una persona morta nel nostro tempo richiede un’assunzione di autorità e di conoscenza che dalla prospettiva evangelica appare indebita. In sostanza, il titolo di “Santo” riservato a un defunto canonizzato appare ai protestanti (e alle Scritture) non solo un uso extra-biblico del termine, ma un’asserzione teologica che travalica i limiti posti dalla Scrittura alla conoscenza umana delle cose celesti.
L’autorità apostolica e la mancanza di un mandato biblico a canonizzare
Un punto centrale da esplorare è se Yeshua o gli apostoli abbiano mai conferito alla Kahillah l’autorità di canonizzare santi. La posizione protestante è netta: nessun passo scritturale di tutta la Bibbia istituisce o autorizza una procedura di canonizzazione come quella sviluppatasi in epoca post-apostolica. Gli apostoli, pur rivestiti di autorità per governare la Kehillah nascente (Mt. 16,19; 18,18; Tt. 1,5), non hanno mai “beatificato” o “canonizzato” formalmente un credente defunto, né tantomeno istruito la Kehillah a farlo in futuro. Nel libro degli Atti e nelle Epistole non troviamo alcun esempio di una comunità cristiana che, riunita, proclama solennemente che un fratello defunto è sicuramente in Paradiso e autorizza il suo culto pubblico. Le Scritture Apostoliche impiegano il termine santo per i vivi (come visto sopra), e riserva agli eroi della fede deceduti una commemorazione elogiativa, non un culto. Per esempio, Stefano, primo martire cristiano, viene pianto e sepolto (At. 8,2) ma non gli viene tributata una “canonizzazione” – la sua santità è manifesta dal suo martirio stesso, e la Scrittura la attesta narrativamente (At. 7,55-60). Lo stesso vale per Giacomo apostolo, ucciso da Erode (At. 12,2), e per altri martiri come «il fedele testimone» Antipa, ucciso per la causa del Messia (Ap. 2,13). Nessun proclama ufficiale, ma solo un ricordo che è il Messia stesso a pronunciare. La Kehillah primitiva li onorava per la loro testimonianza, ma non c’era un processo giuridico per dichiararli santi, né l’attribuzione di un culto con immagini o reliquie codificato dagli apostoli (queste prassi sorgeranno secoli dopo).
È significativo che nessuna lettera apostolica contenga istruzioni del tipo: “quando un fedele muore in odore di santità, il vescovo lo dichiari santo e istituisca una festa in suo onore”. Al contrario, gli apostoli sembrano scoraggiare qualsiasi esaltazione personalistica. Paolo rimprovera i Corinzi per la loro tendenza a glorificare e dividersi attorno a figure umane (1 Cor. 1,11-13, dove alcuni dicevano «io sono di Paolo», «io di Apollo»); egli stesso, pur consapevole di servire da modello (1 Cor. 11,1), dichiara di essere «l’ultimo degli apostoli» e «il primo dei peccatori» (1 Cor. 15,9; 1 Tim. 1,15). L’accento è sempre posto sulla gloria di Dio e del Messia, mai sulla gloria di un singolo credente, per quanto virtuoso. Quando, nel libro dell’Apocalisse, l’apostolo Giovanni è tentato di prostrarsi davanti a un angelo, gli viene detto: «Guàrdati dal farlo [...] Adora Dio!» (Ap. 22,8-9). Questo principio di esclusiva adorazione e preminenza di Dio ha portato i riformatori a rifiutare fermamente l’istituzione di “santi patroni” posti su piedistalli quasi semi-divini. «Soltanto a Dio sia la gloria» (Soli Deo gloria) divenne uno dei motti della Riforma.
La Chiesa Cattolica, dal canto suo, interpreta in modo diverso certi testi biblici per giustificare la propria autorità. Per esempio, cita il conferimento delle «chiavi del regno» a Pietro (Mt. 16,18-19) e il potere di «legare e sciogliere» affidato alla Kehillah (Mt. 18,18) come base della potestà di discernimento dottrinale e disciplinare, che includerebbe anche proclamazioni come la canonizzazione. Inoltre, argomenta che l’“autorità di legare” implica che ciò che la Chiesa decreta sulla terra (nel giusto esercizio del magistero) è ratificato in cielo. In questa prospettiva, un atto di canonizzazione sarebbe validato da Dio stesso. Tuttavia, i protestanti ribattono che tali testi si riferiscono principalmente all’autorità di annunciare il perdono dei peccati tramite il Vangelo e di amministrare la disciplina ecclesiale (per esempio l’esclusione e riammissione nella comunità, cfr. Giov. 20,23; 1 Cor. 5,4-5), non al dichiarare lo stato eterno delle anime. Non c’è evidenza che Yeshua intendesse dare ai Suoi discepoli il potere di decidere chi dovesse essere venerato come santo in futuro; piuttosto, «legare e sciogliere» riguarda decisioni pastorali nel contesto terreno della Kehillah (cfr. At. 15,28-29, dove gli apostoli «sciolgono» i gentili dall’osservanza delle leggi rituali mosaiche). In breve, il vero mandato apostolico non contempla affatto un processo di canonizzazione. Il sorgere di questa pratica nel secondo millennio cristiano – come visto, la prima canonizzazione papale è del 993 d.C. – indica che si tratta di un’evoluzione storica, una tradizione ecclesiastica sviluppatasi col tempo e non di un’istituzione divina originaria. Dal punto di vista protestante, allora, la canonizzazione rientra fra quelle novitas (innovamenti) umane (come il culto delle immagini, delle reliquie, ecc.) che la Chiesa medievale ha introdotto senza un fondamento scritturale, e che anzi rischiano di contraddire lo spirito del cristianesimo primitivo.
Va aggiunto che, secondo i protestanti, neppure l’intento di “riconoscere” e non “conferire” la santità salva la dottrina della canonizzazione dalla critica. I teologi cattolici spesso sottolineano: la Chiesa non “fa santi” (Dio solo santifica), ma si limita a riconoscere ufficialmente chi già è santo in cielo. Il problema – ribatte la prospettiva evangelica – è che tale preteso riconoscimento travalica i limiti umani e ha comunque effetti discutibili: istituisce infatti una distinzione fra fedeli di “serie A” (santi canonizzati) e fedeli comuni, distinzione che non esiste nella Bibbia. Inoltre, presuppone che la Chiesa possa investigare e accertare infallibilmente eventi soprannaturali (miracoli postumi) e lo stato di grazia dell’anima, materie che esulano dalla competenza empirica umana. Anche assumendo le migliori intenzioni, nessuna commissione ecclesiastica potrà mai avere la certezza al 100% che un prodigio sia avvenuto per intercessione di quel defunto e non per sola volontà di Dio (che può guarire chi vuole, quando vuole). Né può conoscere la condizione del cuore di una persona negli istanti finali della sua vita – condizione nota pienamente solo a Dio. Perciò, i protestanti considerano più saggio attenersi al silenzio reverente su questi dettagli, confidando nella giustizia e misericordia di Dio riguardo ai defunti, senza arrogarci un ruolo che la Scrittura non ci assegna.
Martirio e santità: il caso di Carlo Acutis e altri “nuovi santi”
Un elemento spesso confuso nel sentire popolare è la differenza tra santo e martire. Nel linguaggio biblico, il martire è colui che testimonia fino alla morte la propria fede, subendo il supplizio a causa del Vangelo (la parola martyr in greco significa appunto “testimone”, e venne ben presto applicata a chi testimoniava con il sangue). Tutti i martiri cristiani sono considerati santi, ma non tutti i santi sono martiri – molti, come gli apostoli Giovanni o grandi pastori e teologi, morirono di morte naturale pur essendo santi. La Chiesa Cattolica riconosce formalmente questa distinzione anche nelle procedure: un martire può essere beatificato senza bisogno di un miracolo, poiché il suo sacrificio è ritenuto segno sufficiente di santità. Invece, un candidato non martire (confessore) deve vedere accertato almeno un miracolo attribuito alla sua intercessione, come prova che Dio conferma la sua santità.
Nel caso di Carlo Acutis, è chiaro che non si tratta di un martire nel senso tecnico e biblico. Egli non è morto per mano di persecutori né «per la causa del Vangelo», bensì a causa di una grave malattia (leucemia mieloide acuta). Nonostante la sua giovane vita sia stata spesa al servizio di Dio e del prossimo, ed egli abbia offerto le proprie sofferenze a Yeshua, Carlo non rientra nella definizione neotestamentaria di martyr. Questo non intacca minimamente il valore della sua fede o il suo esempio di santità personale, ma è cruciale per evitare confusioni: soffrire non equivale automaticamente a essere martiri, altrimenti migliaia di credenti colpiti da malattie sarebbero tutti “martiri” – cosa che svuoterebbe il termine del suo significato specifico. La testimonianza suprema del martire cristiano è quella di perdere la vita per amore di Yeshua (Mt. 16,25), affrontando consapevolmente la persecuzione. Carlo Acutis, piuttosto, rientra nella categoria dei confessori secondo la terminologia ecclesiastica: persone che hanno vissuto da cristiani ferventi e sono morte in modo ordinario. Difatti, per la sua beatificazione nel 2020 fu richiesto un miracolo (la guarigione prodigiosa di un bambino in Brasile affetto da rara malformazione al pancreas, attribuita all’intercessione di Carlo). Tale miracolo, riconosciuto dalla Congregazione delle Cause dei Santi, valse la proclamazione di Carlo come Beato. Successivamente, ulteriori approfondimenti (e presumibilmente un secondo miracolo) hanno portato all’odierna canonizzazione.
Alla luce di ciò, dal punto di vista protestante, la canonizzazione di Carlo Acutis solleva due questioni:
- è biblicamente corretto chiamarlo “santo” in senso esclusivo?
- qual è il significato e la necessità di proclamarlo tale ufficialmente?
Rispetto al primo punto, come già argomentato, un credente come Carlo – se realmente rigenerato nel Messia – era già santo durante la sua vita, in quanto figlio di Dio per fede. In senso biblico, Carlo non è più santo di qualsiasi altro giovane credente che vive una vita di fede e carità: migliaia di ragazzi e ragazze in tutto il mondo servono Dio umilmente, aiutano i poveri, testimoniano l’Evangelo, magari senza clamore mediatico. Agli occhi di Dio, «non c’è favoritismo» (At. 10,34): Egli vede e riconosce i Suoi santi anche quando il mondo non li conosce affatto. Perciò, un cristiano evangelico saluta con rispetto la memoria di Carlo Acutis come quella di un fedele che, a modo suo, ha onorato Yeshua nella sua breve vita; ma non gli attribuisce una diversa “categoria” ontologica rispetto ad altri credenti deceduti nel Signore. In termini protestanti, Carlo è un “santo” come lo sono tutti i salvati per grazia mediante la fede in Yeshua.
Il secondo punto riguarda il perché la Chiesa avverta il bisogno di canonizzarlo. Qui emerge la critica al sistema canonico: secondo la visione evangelica, la canonizzazione di Carlo (come quella di chiunque altro) appare un atto arbitrario da parte di una potente organizzazione religiosa che si arroga un ruolo non previsto dalla Scrittura. Invece di accontentarsi di ringraziare Dio per l’esempio di Carlo e incoraggiarne l’imitazione, la Chiesa Cattolica lo eleva sugli altari, stabilendo di fatto una distanza tra lui e i fedeli “comuni”. Si istituisce il suo culto pubblico – a Carlo si potranno dedicare chiese, rivolgere preghiere, celebrare la festa liturgica, ecc. – cose che un protestante riserva unicamente a Dio. Il Corriere della Sera, nel titolo dedicato ad Acutis, lo chiama significativamente «il santo di internet», sottolineando il suo patronato sui mondi digitali. Ora, che un giovane appassionato di informatica diventi esempio per l’uso cristiano di Internet è positivo; ma pregare lui per ottenere grazie nel campo digitale (o in qualsiasi altro campo) è del tutto estraneo alla fede biblica, per non dire bizzarro per il buon senso stesso.
Vi è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, il Messia Yeshua uomo (1 Tim. 2,5)
Questo versetto riassume la ragione fondamentale per cui i protestanti non invocano santi né angeli, e meno che mai a defunti. La preghiera e l’intercessione spettano al Messia e allo Spirito Santo (Eb. 7,25; Rom. 8,26-27), non ad anime di fedeli defunti, per quanto pie. Nel canonizzare Carlo e proporlo alla preghiera dei fedeli, la Chiesa Cattolica – secondo i critici evangelici – rischia di oscurare la centralità del Messia come nostro fratello maggiore e sommo sacerdote, oltre che promuovere l'idoaltria. Per dirla con i Riformatori, si sostituiscono «moltissimi mediatori secondari» all’unico mediatore, con la buona intenzione di onorare i servitori di Dio ma con l’effetto (nel lungo periodo) di deviare l’attenzione dal Signore stesso.
Inoltre, si potrebbe argomentare: perché canonizzare Carlo Acutis e non tanti altri giovani cristiani sconosciuti che muoiono ogni giorno dopo aver vissuto con la stessa fede? La risposta, onestamente, è che Carlo ha “fama di santità” – è noto, amato dai fedeli, e la sua storia ha risonanza pubblica. Ma questa popolarità può dipendere da fattori contingenti (per esempio, l’essere italiano, il messaggio moderno legato a internet, il sostegno mediatico). Dio invece conosce molti “santi nascosti” le cui storie non verranno mai alla ribalta: magari un umile studente africano morto giovane per malattia, o un adolescente asiatico che nell’anonimato ha mostrato grande carità. Questi non verranno mai canonizzati perché il mondo non li ha notati, ma presso Dio la loro corona di gloria è sicura (1 Pt. 5,4). Ciò mostra – secondo i protestanti – un limite intrinseco dell’istituzione della canonizzazione: è selettiva e dipendente da dinamiche umane (popolarità, opportunità ecclesiali, pressioni devote), mentre Dio non fa preferenze. La vox populi che un tempo portava ai culti spontanei è oggi sostituita da una vox mediatica o vox ecclesiae che sceglie alcune figure e ne ignora altre. Questo sistema, per quanto animato da buoni propositi, non riflette il modo divino di valutare i Suoi santi – modo che spesso ribalta i criteri umani (Mt. 19,30: «gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi»).
Critica al sistema di canonizzazione e alle sue implicazioni
Dalle considerazioni fatte emergono diverse critiche teologiche verso il sistema cattolico della canonizzazione e, più in generale, verso il culto dei santi “canonizzati”. Riassumiamo i punti principali di tale critica, corroborandoli con riferimenti storici e biblici.
Usurpazione di una prerogativa divina
Dichiarare infallibilmente che un’anima è in Paradiso – e dunque “santificarla” pubblicamente – è visto come un atto che oltrepassa i confini dell’autorità umana. Come già spiegato, solo Dio può conoscere con certezza il cuore dell’uomo e il suo destino eterno (Ger. 17,10; 2 Tim. 2,19). I protestanti accusano la Chiesa Cattolica di essersi arrogata, nel corso dei secoli, competenze che biblicamente non le sono state mai conferite. Questa accusa si estende oltre la canonizzazione: fa parte di una visione più ampia in cui Roma avrebbe preteso poteri divini (si pensi alla dottrina dell’infallibilità papale stessa, definita nel 1870, o al potere di rimettere peccati tramite indulgenze, contestato dalla Riforma). Nel caso specifico, l’idea che il Papa «decida» chi sia santo e venerabile risulta inaccettabile per chi sostiene il sola Scriptura: la Scrittura non investe Pietro o i suoi successori di un simile ruolo. Anzi, l’apostolo Pietro definisce tutti i credenti «stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa» (1 Pt. 2,9) e non istituisce alcun processo per separare alcuni “super-santi” dagli altri. Egli stesso, pur primus inter pares, si definisce presbitero, cioè «anziano come gli altri» (1 Pt. 5,1-3), segno di un’eguaglianza fondamentale di tutti davanti a Dio. La santificazione, in termini dottrinali, è un’opera continua dello Spirito Santo su ogni credente (2 Cor. 3,18; 1 Tess. 5,23) e si completerà solo nella gloria futura, allorché tutti i redenti saranno glorificati insieme (Rom. 8,30; Eb. 12,23). Decidere ex cathedra che qualcuno ha già raggiunto la perfezione gloriosa (visione beatifica) in anticipo rispetto al giudizio finale di Dio è, agli occhi degli evangelici, un atto presuntuoso – per quanto confortante possa essere per i fedeli cattolici l'idea di avere “amici in cielo” certificati.
Rischio di deviazione della devozione
Sin dall’epoca della Riforma, uno dei bersagli delle critiche protestanti fu il culto dei santi. Martin Lutero e gli altri riformatori osservavano come, nella pratica tardo-medievale, molti cristiani ponessero più fiducia nell’invocare i santi protettori (defunti) che nel rivolgersi direttamente al Messia (vivente). I calendari liturgici pullulavano di feste di santi, le chiese erano gremite di altari laterali dedicati a questo o quel santo, e si era sviluppata una sorta di “religione secondaria” e "vangelo diverso" incentrata sulle grazie ottenute tramite l’intercessione dei defunti e delle loro ossa. Tutto ciò, secondo i protestanti, offusca l’unicità di Dio e del Messia nella pietà del credente. La canonizzazione, incentivando la venerazione pubblica di certe figure, è vista come il motore di questo “pantheon” cristiano. Già la Confessione di Augusta del 1530 (uno dei primi testi ufficiali del luteranesimo) affermava:
Si insegna che i santi devono essere tenuti in memoria affinché il nostro esempio sia rafforzato [...] ma la Scrittura non insegna di invocare i santi o chiedere aiuto a loro, perché c’è un solo mediatore in cielo e in terra, Gesù Cristo.
Questo riassume bene la posizione protestante classica: onorare la memoria dei santi sì, pregarli no. E se non li si prega, non è necessario alcun atto formale per abilitare tale preghiera. La Chiesa di Roma, canonizzando formalmente un santo, di fatto autorizza e promuove la sua invocazione da parte dei fedeli. Questo appare un travisamento della comunione dei santi insegnata dal Credo: per i protestanti, «comunione dei santi» significa solidarietà e amore tra credenti (vivi e, in senso più ampio, uniti nel Messia oltre la morte), ma non comunicazione cultuale con i defunti. Non ci sono esempi biblici di cristiani che pregano credenti defunti; anzi, pratiche simili sono condannate (consultare i morti, Deut. 18,10-12). Quindi, il sistema che sta attorno alla canonizzazione – ovvero la venerazione delle immagini dei santi, le reliquie, i pellegrinaggi alle tombe, le preghiere d’intercessione rivolte a loro – viene rigettato in blocco come non biblico e idolatrico.
Santità universale vs. santità d’élite
Come già enfatizzato, la dottrina biblica sottolinea il sacerdozio universale di tutti i credenti e la chiamata universale alla santità. In tale luce, l’idea di creare un registro ufficiale di santi appare fuorviante. Si rischia di comunicare (anche involontariamente) che esistano due livelli di cristiani: gli eroi straordinari che, dopo la morte, ricevono onori pubblici, e la "marmaglia" dei fedeli comuni il cui ricordo svanisce presto. La Chiesa Cattolica, per mitigare questo, afferma anche l’esistenza di innumerevoli santi “ignoti” che solo Dio conosce. Per esempio, la festa di Tutti i Santi (1º novembre) celebra proprio la “schiera immensa” di defunti anonimi che non sono nel calendario ma sono in cielo. Tuttavia, rimane il fatto che i soli ad essere pubblicamente onorati nelle liturgie siano quelli canonizzati. I protestanti obiettano che ciò non rispecchia la prospettiva biblica, nella quale ogni vero cristiano è «membro del corpo» con pari dignità (1 Cor. 12,12-27) e ogni servizio, piccolo o grande, verrà ricompensato da Dio (Mt. 10,42). La logica del Vangelo sovverte le classifiche umane: «molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi» (Mt. 19,30). Il pericolo pastorale, insito nelle canonizzazioni, è che i fedeli tendano a delegare la santità a quei pochi “specialisti di santità”, ammirandoli magari passivamente, invece di cogliere la sfida che tutti siamo chiamati ad essere santi nella nostra vita quotidiana (Eb. 12,14: «procacciate la santificazione, senza la quale nessuno vedrà il Signore»). In ambienti popolari cattolici, si sente dire: “Io non sono un santo, non sarò mai santo – mi rivolgo a San X per ottenere aiuto”. Questo atteggiamento quasi rassegnato contrasta con l’etica biblica che incoraggia ogni credente a correre con perseveranza la gara della fede (Eb. 12,1-2) mirando personalmente alla santità, senza scuse.
Il ruolo della Chiesa nella salvezza
L’ultimo punto, forse il più polemico ma cruciale, tocca la pretesa che la salvezza sia elargita solo a chi è parte dell’istituzione ecclesiale cattolica. Questa accusa viene sollevata spesso dai protestanti in riferimento all’auto-comprensione cattolica. La Chiesa di Roma, specie nei secoli preconciliari, ha più volte affermato il principio extra Ecclesiam nulla salus (fuori dalla Chiesa non c’è salvezza). Seppur oggi tale principio venga interpretato in senso meno esclusivista (riconoscendo che anche i non cattolici possono essere salvati, seppure in modo misteriosamente legato alla Chiesa Cattolica), resta l’idea di fondo che la Chiesa Cattolica sia il veicolo necessario della grazia salvifica per tutti. Documenti ufficiali ribadiscono:
la Chiesa pellegrinante è necessaria alla salvezza [...] Cristo, unico mediatore, è presente in essa, suo Corpo [...] gli uomini entrano nella Chiesa mediante il battesimo come per una porta.
In pratica, ciò implica che la giustificazione e la santificazione avvengono ordinariamente dentro i confini visibili dell’istituzione ecclesiale, attraverso i sacramenti amministrati da essa. Un antico detto polemico sosteneva: «Roma non solo canonizza i santi, ma pretende anche di giustificare i peccatori». Cioè, la Chiesa cattolica agirebbe come dispensatrice della grazia di giustificazione (tramite battesimo, confessione, indulgenze, ecc.), mettendo di fatto la salvezza nelle mani del clero anziché direttamente nelle mani del Messia. Questo ovviamente è respinto dalla Scrittura: «Il giusto vivrà per fede» (Rom. 1,17) – la fede nel Figlio di Dio, non l’iscrizione in un registro ecclesiastico, salva l’anima. Per l’evangelico, appartenere al Messia Yeshua è ciò che conta per la salvezza, indipendentemente dall’appartenenza formale ad una denominazione. Si ritiene che nessuna chiesa visibile possa arrogarsi il monopolio della salvezza, perché Dio conosce i Suoi in ogni luogo e comunità (Giov. 10,14-16). Certo, la vera Kehillah (invisibile, formata da tutti i veri credenti) è il corpo del Messia e fuori dal Messia (non di una istituzione) non c’è salvezza; ma identificare quel Corpo unicamente con l’istituzione romana è considerato un errore teologico e storico. La Riforma pose l’accento sulla salvezza individuale per grazia mediante la fede, accessibile senza bisogno di passare per i canali sacramentali controllati da un clero. Su questo sfondo, i protestanti vedono la canonizzazione come un sintomo di quell’approccio “ecclesiocentrico”: la Chiesa che non solo regola l’accesso alla salvezza (tramite i sacramenti), ma addirittura “certifica” chi ce l’ha fatta in cielo. In modo paradossale, si potrebbe dire che mentre Dio giustifica il peccatore pentito, la Chiesa Cattolica “giustifica” i santi dichiarandoli tali. Questa ironia sottolinea una differenza di vedute: per i protestanti, giustificazione e santificazione sono atti esclusivi di Dio sulla persona (Rom. 8,33: «Dio è colui che li giustifica»), e nessuna autorità umana può aggiungervi o completarli. Il credente è pienamente giustificato nel Messia per fede (Rom. 5,1) e la sua santità è nascosta con il Messia in Dio (Col. 3,3-4) in attesa di essere manifestata alla venuta del Messia, non alla proclamazione di un concilio.
In conclusione di questa sezione critica, si può affermare che il sistema della canonizzazione e del culto dei santi, da un punto di vista biblico ed evangelico, rappresenta una deviazione dalla purezza originaria del Vangelo. Questo vangelo diverso è nato in un contesto storico in cui la Chiesa post-apostolica, intrecciando potere spirituale e temporale, offriva al popolo figure tangibili di devozione, ma col rischio di alimentare superstizioni e pratiche non autorizzate dalla Parola di Dio. La Riforma Protestante ha rifiutato tali innovazioni e ha cercato di ricondurre i credenti al Messia solo come oggetto di fede, speranza e venerazione assoluta. Da allora, il dibattito è rimasto aperto: i cattolici vedono nella canonizzazione un naturale sviluppo della dottrina della Chiesa come madre e maestra che guida i figli alla santità, gli evangelici (e soprattutto la Bibbia) la vedono come un tradimento del principio che “solo Dio santifica”. La differenza riflette visioni ecclesiologiche diverse: Chiesa macchiata come mediatrice della grazia vs. Kehillah pura e senza macchia come semplice assemblea di salvati dal mediatore Yeshua.
Conclusione
La disamina condotta evidenzia come la pratica cattolica della canonizzazione di santi sia, per la teologia protestante, priva di solido fondamento biblico e teologico. Abbiamo ripercorso le origini storiche di questa istituzione, constatando che essa sorse solo secoli dopo l’era apostolica, in risposta a esigenze devozionali e disciplinari specifiche della Chiesa medievale. Nulla nella Bibbia suggerisce che gli apostoli – pur depositari dell’autorità di insegnare e guidare – abbiano investito sé stessi o i loro successori del compito di proclamare ufficialmente la santità post mortem di certi individui. Al contrario, la testimonianza scritturale ci presenta una comunità in cui tutti i credenti sinceri sono considerati «santi» per grazia e in cui l’onore verso i fedeli defunti si esprime nella memoria grata e nell’imitazione della loro fede, non in atti di culto a loro rivolti.
L’analisi teologica ha messo in luce i rischi dottrinali e spirituali associati al sistema della canonizzazione: dall’attribuzione alla gerarchia ecclesiastica di prerogative che spettano solo a Dio (decidere chi sia in Paradiso), alla deviazione della pietà popolare verso figure umane, seppur glorificate, a scapito di un rapporto diretto con il Messia. La concezione protestante, radicata nel solus Christus e nel sola Scriptura, non può accettare intermediari aggiuntivi né fonti extrabibliche di certezza sul destino eterno delle anime. Da questa prospettiva, la canonizzazione appare come un “aggiungere strati” alla semplice struttura del Vangelo: un rito e un titolo onorifico che, sebbene nati con l’intento di edificare i fedeli, rischiano di alimentare un’ecclesiologia ed una spiritualità parallele a quelle stabilite da Yeshua e dagli apostoli.
È importante notare che tale critica protestante non implica una negazione della santità reale di molte persone. Figure come Francesco d’Assisi, Teresa di Calcutta o – perché no – lo stesso Carlo Acutis, vengono riconosciute dai protestanti come persone che hanno manifestato virtù cristiane eminenti. Non c’è alcuna ironia nel definirli “santi” in senso lato, di vita devota. Il punto cruciale è che, secondo la Riforma, queste persone non necessitavano affatto di una dichiarazione pontificia per essere sante né per essere presso Dio. Se sono state salvate per mezzo di Yeshua (ammesso che non abbiano commesso idolatria o altri peccati occulti), la loro santità è un fatto compiuto per la grazia divina. Se, per ipotesi, non fossero state regenerate nel Messia (cioè non sono nate di nuovo), nessuna proclamazione umana potrebbe cambiarne lo stato. La santità e la salvezza rimangono nelle mani sovrane di Dio, che «farà comparire i Suoi eletti gloriosi» a Suo tempo, senza bisogno di decreti ecclesiastici terreni (Col. 3,4). L’arbitrio dell’organizzazione religiosa – per citare le parole usate – consiste proprio nel legiferare su materia spirituale oltre il lecito. Canonizzando e promuovendo il culto di nuovi santi, la Chiesa Cattolica tende a consolidare il proprio ruolo di mediatrice visibile fra l’uomo e il cielo, ruolo che per la Bibbia spetta unicamente al Messia e, in senso subordinato, alla predicazione del Vangelo.
In conclusione, dalla prospettiva qui adottata, la canonizzazione papale risulta un’istituzione da ripensare criticamente alla luce della Bibbia. Pur riconoscendo le buone intenzioni e gli aspetti positivi (come offrire modelli di virtù ai credenti), si deve constatare che essa non trova riscontro nella Kehillah apostolica del primo secolo e anzi entra in tensione con alcuni principi cardine dell’Evangelo:
- l’uguaglianza dei credenti davanti a Dio;
- la centralità esclusiva del Messia nella mediazione salvifica;
- la sufficienza delle Scritture come guida per la dottrina e la devozione.
Denunciare questo sistema non significa, per i protestanti, mancare di rispetto verso la Chiesa Cattolica o verso i suoi santi, ma rispondere a una chiamata alla fedeltà biblica. Significa affermare – con la dovuta umiltà ma con fermezza – che solo Dio “canonizza” nel senso ultimo del termine: solo Lui iscrive i nomi nel libro della vita (Ap. 21,27), solo Lui «farà apparire gloriosi, senza difetti né macchia, i Suoi santi» (Ef. 5,27) nel giorno finale. La Kehillah, invece, è chiamata ad annunciare il Vangelo, a fare discepoli (Mt. 28,19-20), a esercitare la disciplina e la carità, ma non a compilare l’albo dei redenti. In definitiva, l’auspicio biblico-evangelico è di tornare a una concezione più sobria e biblica della santità: quella per cui ogni credente, giustificato per fede, è santo nel Messia (1 Cor. 1,2) e simultaneamente chiamato a crescere in santità nella vita presente (1 Tess. 4,3), confidando che al rapimento della Kehillah tutti i veri santi – noti e ignoti – saranno manifestati nella gloria, per decisione sovrana di Dio e non per decreto umano.