Introduzione
C’è un modo di vedere che non coincide con l’avere gli occhi aperti. La Scrittura conosce questa differenza: si può scrutare, misurare, perfino profetizzare, e tuttavia non «vedere davvero». Al contrario, esiste un vedere sorprendente, che nasce dall’umiltà, dalla disponibilità a lasciarsi interrompere, dalla capacità di riconoscere un segno piccolo quando ci si aspetterebbe qualcosa di spettacolare. Le tre porzioni che mettiamo in dialogo — la vicenda di Balaam e dell’asina, la promessa del governante da Betlemme, e l’ingresso mite del Re in Gerusalemme — offrono tre scene distinte dello stesso mistero: la rivelazione passa davanti a noi, ma non sempre chi guarda la riconosce (Num. 22,2–25,9; Mi. 5,6–6,8; Mt. 21,1–11). In ciascuna, il punto non è che cosa si vede in termini sensibili, ma secondo quale sguardo si interpreta ciò che accade: quello centrato su sé stessi, che seleziona e distorce, oppure quello educato dall’alleanza, che riconosce e adora. Su questo crinale, la Torah, i Profeti e le Scritture Apostoliche si richiamano a vicenda, mostrando come la vera vista nasca dall’obbedienza e sfoci nella lode.
Parashah (Numeri 22,2—25,9)
L’asina vide»: l’ironia profetica che smaschera la cecità
La scena è nota e, ogni volta, spiazzante. Un profeta celebre viene convocato da un re timoroso. Balak teme Israele come si teme un incendio alle porte del campo (Num. 22,2–6). Il profeta, Balaam, è un uomo di parole potenti: chi egli benedice è benedetto, chi maledice è maledetto. L’attenzione si concentra su di lui — e qui la Scrittura disegna un rovesciamento. La bestia che cavalca vede l’angelo di YHWH con la spada nuda; il profeta, no (22,23-27). L’asina devia, schiaccia il piede di Balaam contro un muro, si accascia. Balaam si adira, percuote. Poi accade l’impossibile: «YHWH aprì la bocca dell’asina» (22,28). Un Midrash ha colto questo punto con finezza, inserendo «la bocca dell’asina» tra le dieci cose create al crepuscolo della creazione, quasi per dire che Dio aveva già previsto, in principio, quest’ironia salvifica: la parola che illumina potrà venire da un luogo umile e inatteso (Avot 5,6).
Non è semplice comicità. È teologia in azione. L’occhio di Balaam è pieno di sé, della ricompensa promessa, della sua fama. La Mishnah contrappone i discepoli di Abraamo e quelli di Balaam: i primi si distinguono per «occhio buono, spirito umile e animo modesto»; i secondi per «occhio cattivo, spirito superbo e animo avaro» (Avot 5,19). Nella narrazione, l’«occhio cattivo» non è un vizio astratto: prende forma in una cecità pratica davanti al segno di Dio. L’asina vede tre volte e tre volte tenta di salvare il padrone; il padrone interpreta tutto come ostacolo alla sua corsa. Quando finalmente «YHWH aprì gli occhi di Balaam ed egli vide l’angelo di YHWH ritto sulla strada» (Num. 22,31), non si tratta dell’acquisizione di un’informazione, ma di un ribaltamento interiore. L’angelo dice: «La tua via non è retta ai miei occhi» (22,32). Ecco il punto: non basta vedere; occorre raddrizzare la via.
Questa prima scena insegna che la rivelazione mette alla prova lo sguardo: lo sorprende, lo ferma, lo corregge. Balaam è chiamato, con insistenza, a non dire che ciò che YHWH gli dirà (22,20.35; 23,12). Ciò implica un esercizio di spoliazione. Il Talmud ricorda — e la Torah lo conferma nella prosecuzione — che Balaam può diventare, a suo malgrado, strumento di benedizione, ma resta pericolosa la sua inclinazione a piegare la visione a interessi estranei all’alleanza; la tradizione attribuisce a lui il consiglio che porterà Israele allo scandalo di Peor (Num. 25,1-3; Sanhedrin 105a). Gli «occhi aperti» proclamati nei suoi oracoli (24,3-4) non garantiscono, di per sé, il cuore convertito. La vista vera è legata alla fedeltà.
C’è un’altra finezza rabbinica che illumina il testo: quando l’asina parla, Balaam non si stupisce della possibilità in sé; risponde, discute e si giustifica (22,29-30). È come se la narrazione volesse mostrare una seconda cecità: non solo non vede l’angelo, ma non riconosce lo straordinario quando gli accade nel quotidiano. Il miracolo è accaduto; l’uomo, però, resta centrato su sé stesso. La vista vera esige una decentratura: essere disposti a sospendere il proprio giudizio per ascoltare una parola che non proviene da noi. In questo senso, «vedere» equivale a «obbedire». Quando Balaam obbedirà, la sua bocca, come quella dell’asina, sarà aperta — ma in benedizione: «Come sono belle le tue tende, o Giacobbe!» (24,5). Chi ha «occhio buono» benedice; chi è accecato dalla propria corsa finisce per maledire perfino ciò che lo salva.
Musar-Etica
L’insegnamento per noi è trasparente: se l’asina vede e il profeta no, non indigniamoci per l’ironia, ma lasciamoci ammonire. Nella Kehillah, può capitare che un evento umile, un volto marginale, un’interruzione non programmata siano il luogo in cui YHWH, con la spada della Sua verità, ci ferma sulla strada sbagliata. La vista che salva è quella che accetta di essere corretta. L’inizio della vera visione è il timore del Signore che piega la nostra fretta e mancanza di prudenza sotto la Sua Parola.
Haftarah (Michea 5,6–6,8)
Da te uscirà… Egli starà e pascerà: riconoscere il Pastore nella piccolezza
Se la prima scena smaschera l’illusione di vedere, la seconda insegna come si impara a riconoscere. Michea annuncia un paradosso: la salvezza viene da Betlemme, «piccola per essere fra i clan di Giuda» (5,1). La logica dell’elezione biblica predilige il piccolo: lo ha fatto con Giacobbe sul fratello maggiore, con Davide sul fratello più imponente, con Israele fra le nazioni (Deut. 7,7). Qui, nella periferia di Israele, si prepara un «governante» che pascerà «nella forza di YHWH, nella maestà del Nome di YHWH suo Dio» e «sarà pace» (5,3-4). L’immagine è pastorale, non imperiale. Il verbo chiave è «stare»: «Egli starà e pascerà» — non un passaggio fugace, non un colpo di scena, ma una presenza affidabile, capace di nutrire, proteggere, dare pace.
Anche qui il nodo è lo sguardo. Michea invita a cercare il segno nel luogo giusto: non nelle alture cultuali né nelle strategie diplomatiche, ma nella fedeltà di Dio che fa sorgere un pastore dal poco. Il capitolo successivo affina la pedagogia del vedere:
Ti è stato fatto conoscere, o uomo, ciò che è bene: praticare la giustizia, amare la misericordia [chesed] e camminare umilmente con il tuo Dio (Mi. 6,8)
Il Talmud legge questo versetto come una grande sintesi del cammino dell’alleanza, una riduzione sapienziale dei 613 precetti a tre cardini, e, più oltre, fino a uno: «il giusto vivrà per la sua fede» (Makkot 23b–24a; Aba. 2,4). Non si tratta di scontare la Torah, ma di rivelarne il cuore: la vera vista si forma nella pratica della giustizia, dell’amore fedele, dell’umiltà. Senza questa triade, perfino l’offerta cultuale diventa cieca (Mi. 6,6-7).
Il profeta ha un compito educativo: raddrizzare l’occhio del popolo. Non basta «vedere» i segni di un governante; si tratta di «riconoscere» il Pastore quando arriva nella forma che l’alleanza ha sempre annunciato: non come un dominatore, ma come Colui che, stando in mezzo al gregge, lo fa crescere nella pace. Quando Michea dice «sarà pace», non indica un sentimento interiore, ma un ordine di vita in cui le relazioni sono riparate, la giustizia è custodita, la misericordia prevale. La vista vera, qui, ha un contenuto etico: chi guarda secondo l’alleanza diventa capace di riconoscere il bene e praticarlo. Il «camminare umilmente» non è timidezza sociale, ma il contrario della pretesa di Balaam: non imporre al testo e alla storia la propria narrativa, ma piegare la propria narrativa al Nome di Dio.
C’è, inoltre, una sottile coerenza fra il «vedere» e il «camminare». La Bibbia ebraica non separa mai conoscenza e condotta: «Camminare alla luce del volto di YHWH» è vedere con i piedi, cioè lasciare che la luce ricevuta guidi i passi (cfr. Sal. 119,105). Se Michea ci educa a questo, è perché sa che la rivelazione — piccola come Betlemme, grande come la pace — passa davanti a tutti, ma solo alcuni la riconoscono. Chi la riconosce? Non i più informati, ma i «poveri di YHWH», coloro che non presumono di sé, che attendono il Pastore nella forma che Egli sceglie. Questo rovescia i nostri criteri: ci invita a misurare il nostro sguardo non su quanto capta, ma su quanto obbedisce.
Infine, Michea offre un antidoto alla cecità religiosa: «Praticare [...] amare [...] camminare». La vista non è possesso, è moto. Chi vede davvero non si limita a dire «ho visto», ma si alza e compie giustizia, coltiva chesed, si muove in umiltà. Per questo la promessa del Pastore che «sarà pace» non è una cornice ornamentale: diventa criterio per discernere tutto il resto. Là dove cresce la pace secondo Dio — che non è compromesso ma riconciliazione nella verità — là si riconosce il suo Pastore. Il profeta, così, ci consegna una lente per leggere anche la terza scena.
Besorah (Matteo 21,1–11)
Ecco, il tuo re viene a te, mite: imparare a vedere il Re nella mansuetudine
Nelle Scritture Apostoliche, l’evangelista ci conduce sulle pendici del Monte degli Ulivi. Yeshua invia due discepoli con un compito preciso: sciogliere un’asina e un puledro, e condurli a Lui (21,1–3). Il gesto è deliberato: l’evangelista vi riconosce l’adempimento della promessa — «Ecco, il tuo re viene a te, mite, seduto su un’asina e su un puledro» — richiamando Zaccaria (Zac. 9,9; Mt. 21,4–5). La folla stende mantelli e rami, acclama: «Osanna al Figlio di Davide!» (21,8–9). Di nuovo, la questione è lo sguardo. Molti vedono un gesto, partecipano a una liturgia. Alcuni, però, domandano: «Chi è costui?» (21,10). Non tutti riconoscono.
La tradizione rabbinica conosce questo paradosso del Re che viene in modo umile. Il trattato Sanhedrin 98a mette in tensione due profezie: se Israele è degno, il Figlio dell’Uomo verrà «sulle nubi» (Dan. 7,13); se non lo è, verrà «umile e cavalcando un asino» (Zac. 9,9). La logica è provocatoria: non sempre il compimento si manifesta in grandezza visibile; talvolta giunge nella povertà di un segno che chiede fede. Non è un compromesso al ribasso; è un modo di purificare lo sguardo dalle attese deformate. Se cerchi un cavallo da guerra, puoi non vedere un Re su un puledro; se chiedi un trionfatore che schiaccia, puoi inciampare in un Messia che salva portando su di Sé, e non imponendo ad altri, il peso della riconciliazione.
C’è un filo che torna dalla nostra prima scena. A Balaam serve un’asina che vede per essere fermato sulla via sbagliata; qui Yeshua sceglie un’asina per rivelare la retta Via. Quello che per Balaam è rimprovero, qui è segno: l’animale umile diventa il Trono di un Re mite. È come se Dio dicesse:
Vuoi vedere davvero? Abbandona l’idea del potere che si impone, e guarda il potere che si dona.
In questo senso, l’ingresso in Gerusalemme non è un’anticamera opzionale, ma un’epifania dello stile del Regno. La «vista» che salva è la capacità di riconoscere la regalità nella mansuetudine. Non a caso, subito dopo, Yeshua purifica il Tempio e guarisce ciechi e zoppi: una regalità che raddrizza il culto e risana le ferite (Mt. 21,12–14).
Ancora una volta, la tradizione rabbinica offre una chicca che affianca la scena: «L’occhio vede, il cuore desidera e il corpo compie» — così riassume il Midrash un dinamismo elementare dell’animo umano. La folla che vede Yeshua e desidera «Osanna» fa bene; ma chi desidera soltanto l’ebbrezza di un giorno, senza lasciare che il cuore si converta, non vede davvero. Per vedere, bisogna desiderare secondo Dio; e per desiderare secondo Dio, bisogna camminare come Michea ha insegnato. La domanda «Chi è costui?» non va disprezzata: può diventare inizio di vera conoscenza se conduce oltre l’entusiasmo verso l’obbedienza. In altre parole, lo sguardo si purifica nel tempo, e la Scrittura ci mostra che la prova dello sguardo è la fedeltà quando l’«Osanna» lascia spazio alla via stretta.
C’è, infine, un tratto cristallino: la folla attribuisce a Yeshua un titolo regale («Figlio di Davide»), ma lo colloca entro una cornice profetica: «Questi è il profeta Yeshua, da Nazareth di Galilea» (Mt. 21,11). Non è un declassamento; è un indizio. Il Re riconosciuto dalle Scritture è anche il Profeta che interpreta il senso di ogni segno, purifica il culto, raddrizza la giustizia. Il Re mite compie Michea: «sarà pace» (Mi. 5,4) non come tregua fragile, ma come sovranità che guarisce. Chi vede questo, entra nel Regno come in una nuova percezione: ciò che il mondo giudica debole — un asino, un villaggio piccolo, un profeta disarmato — è il luogo in cui Dio svela la Sua forza.
Conclusione
Le tre scene, poste in risonanza, dettano una pedagogia della vista. Nella prima, Dio scompagina il nostro orgoglio: ci mostra che si può essere «profeti» e tuttavia ciechi, finché non si accetta di essere fermati da una voce umile (Num. 22,28-31). Nella seconda, Dio educa il nostro desiderio: ci insegna a cercare il Pastore nel piccolo, a riconoscere la pace dove si pratica giustizia, si ama chesed, si cammina in umiltà (M.i 5,1-4; 6,8). Nella terza, Dio compie l’alfabeto della rivelazione: il Re viene, ma viene come mite, e chiede uno sguardo purificato dalla fede per essere riconosciuto (Mt. 21,1-11; Zac. 9,9). È ancora l’antica alternativa: «occhio buono» e «occhio cattivo». La vista vera non è un talento psicologico; è un frutto dell’alleanza. Cresce dove si lascia che YHWH apra la bocca delle «asine» della nostra vita, dove si attende un governante da Betlemme più che un colpo di stato religioso, dove si stendono mantelli non per estetica, ma perché si è deciso di far passare il Re sopra i propri possessi.
Che cosa fare, allora?
- Domandare che il Signore apra i nostri occhi. È una preghiera audace, perché include la disponibilità a essere contraddetti e corretti. Significa ammettere che la nostra corsa può essere sbagliata, e che Dio ha il diritto di fermarci con un segno piccolo e, talvolta, umiliante.
- Esercitarsi nella triade di Michea. Non come moralismo, ma come ginnastica dello sguardo. La giustizia addestra l’occhio a riconoscere il bene comune; il chesed allena il cuore a vedere la persona oltre la funzione; l’umiltà rende disponibile a ricevere il Re nel modo in cui Egli decide di venire.
- Imparare la liturgia dell’«Osanna» che diventa vita. Stendere il mantello è una bella immagine; ma la vera stesura è quella delle nostre agende, delle nostre priorità, del nostro linguaggio. La regalità di Yeshua si riconosce quando attraversa la nostra strada e la cambia.
Musar-Etica
L’invito pratico può essere espresso così: oggi, trova la tua «asina». Identifica l’interruzione che ti irrita e domandati se non sia il luogo dove Dio ti sta salvando dalla tua fretta. Poi, vai a Betlemme. Cioè, scegli volutamente un atto piccolo, nascosto e fedele, attraverso il quale alimentare pace concreta in una relazione ferita. Infine, accompagna il Re nella Sua via mite: sostituisci un gesto di potere con un gesto di servizio. Se lo farai, non avrai semplicemente «visto» qualcosa; avrai imparato a vedere davvero.
Vedere davvero, nella Bibbia, significa riconoscere e accogliere il Re-Pastore che Dio manda nella piccolezza e nella mansuetudine, lasciando che giustizia, chesed e umiltà raddrizzino il nostro sguardo.
Ascolta la parashah di Daniele Salamone del 30/06/2023
Parashat Balak (Numeri 22,2—25,9)