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Parashat Devarim (Deut. 1,1—3,22)

Culto senza giustizia: quando le mani alzate nascondono mani sporche
22 novembre 2025 di
Parashat Devarim (Deut. 1,1—3,22)
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

Ci sono momenti in cui il popolo di Dio sembra in ginocchio, con le mani alzate, ma il cielo resta in silenzio. Non perché Dio sia lontano, ma perché qualcosa, tra le nostre mani e il suo volto, non torna. La prima Parashah di Deuteronomio, la Haftarah di Isaia e la Besorah secondo Matteo ci mettono davanti a una domanda scomoda: che cosa vede davvero YHWH quando noi “lo serviamo”? Solo forme religiose, o una giustizia vissuta, concreta, che raggiunge i deboli, gli invisibili, gli ingannati?

Il Tanakh e le Scritture Apostoliche intrecciano la stessa denuncia: un culto sganciato dalla giustizia diventa non solo inutile, ma offensivo. E tuttavia, proprio lì, Dio apre una via di ritorno.


Parashah (Deut. 1,1–3,22)

Giudicare senza guardare in faccia nessuno

Deuteronomio è l'ultimo grande capitolo della Torah, ambientato nell'ultimo mese di vita del profeta, dove Aronne e Miriam sono già trapassati. Mosè perciò è solo e parla alla generazione che sta per entrare nella Terra Promessa come un padre che dà le ultime raccomandazioni ai figli prima di tornare ai padri. Prima di ricordare conquiste e promesse, si ferma su un tema apparentemente “tecnico”: la nomina dei giudici. Racconta di quel momento in cui disse al popolo che non poteva più portare da solo il peso di tutti, e perciò furono scelti capi e giudici per amministrare la giustizia (1,9-15). Subito dopo, consegna loro una parola che è un filo d’oro per tutto il capitolo:

Non avrete riguardi personali nel giudicare; darete ascolto al piccolo come al grande; non avrete paura di nessuno, perché il giudizio appartiene a Dio (1,17).

In ebraico, il comando è ancora più tagliente: lo takirù panim ba-mishpat, letteralmente «non riconoscerete il volto nel giudizio». È un modo di dire che indica il non lasciarsi condizionare da chi hai davanti: volto simpatico, ricco, influente, parente, persona scomoda o apparentemente insignificante. Rashi legge questo versetto come un avvertimento prima di tutto a chi nomina i giudici: non scegliere qualcuno perché è “bello”, “forte” o “parente”, se non è competente nella Torah e nella giustizia (Rashi su Deut. 1,17).

Il Talmud aggiunge un dettaglio concreto: un giudice non deve ascoltare le parole di una parte quando l’altra non è presente, perché questo corromperebbe la sua imparzialità (Sanhedrin 7b). È interessante che tutto questo non venga presentato come un semplice “codice civile”, ma come questione profondamente spirituale: «il giudizio appartiene a Dio». Ogni volta che un giudice distorce il diritto, non sta solo commettendo un errore amministrativo; sta profanando il Nome, mis-rappresentando il carattere del Giudice supremo.

Qui la Parashah ci colpisce nel vivo. Forse non siamo chiamati a sedere in un tribunale, ma tutti, in comunità e in famiglia, “giudichiamo”: prendiamo posizione, ascoltiamo voci, diamo credibilità ad alcuni e la neghiamo ad altri. Quante volte, senza dircelo, «riconosciamo il volto»? Siamo più indulgenti con chi ci è simpatico, più duri con chi non parla il nostro linguaggio, più accondiscendenti con chi ha un ruolo o un titolo, più sospettosi verso chi arriva dal margine.

Mosè, alla fine, mostra che se la giustizia si corrompe, il popolo intero ne porta le conseguenze: l’ingresso nella Terra Promessa viene ritardato, le scelte di alcuni diventano peso per tutti (Deut. 1,26-40). La giustizia non è un accessorio; è parte dell’adorazione. È in questo punto che la Haftarah ci prende per mano e ci porta a guardare l’altra faccia del problema: quando il culto continua, ma la giustizia è stata abbandonata.


Haftarah (Is. 1,1–2,7)

Le vostre mani sono piene di sangue

Isaia vede Gerusalemme nel pieno della sua attività religiosa. Le feste si celebrano, i sacrifici non mancano, la liturgia è intensa. Eppure YHWH pronuncia parole che spiazzano:

Che m’importa dei vostri numerosi sacrifici? [...] Non posso sopportare l’iniquità unita alle solenni assemblee (1,11.13)

Il problema non sono le feste in sé, istituite da Dio, ma il modo in cui vengono vissute. Secondo Rashi, Dio non rigetta i sacrifici come istituzione, ma li rifiuta quando sono offerti da persone malvagie, citando il proverbio: «Il sacrificio degli empi è in abominio» (Prov. 15,8; Rashi su Is. 1,11).

Al centro del testo isaiano risuona un’accusa tremenda: «Le vostre mani sono piene di sangue» (1,15). Nel contesto, questo sangue non è soltanto quello di vittime innocenti fisicamente uccise, ma il frutto di una società che abbandona l’orfano e la vedova, che tollera l’oppressione, che gira lo sguardo dall’altra parte mentre i deboli vengono schiacciati. Il testo prosegue infatti:

Cessate di fare il male, imparate a fare il bene; cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, fate giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova (1,16-17)

È come se Dio dicesse: “Le mani che alzate verso di Me sono le stesse mani che restano ferme quando c’è da difendere chi non ha voce. Sono mani che offrono sacrifici, ma non si sporcano per il prossimo”. E qui possiamo inserire un esempio molto vicino a noi, senza farne il centro esclusivo del discorso, ma lasciandolo parlare alla coscienza ().

Ci sono credenti che durante i culti alzano le mani in adorazione, predicano con convinzione la Parola di Dio che denuncia le opere delle tenebre, e nello stesso tempo normalizzano e simpatizzano, nella loro vita quotidiana, contenuti occulti presentati come intrattenimento: serie incentrate su stregoneria, magia, spiriti evocati, culti satanici resi “simpatici”, oppure giochi, romanzi e film che trasformano l’occulto in qualcosa di ironico, alla moda, addirittura “istruttivo”. Non pochi arrivano perfino a consigliarli ad altri, dicendo che «tanto è solo fantasia». Sono mani che si alzano a Dio, sì, ma sono sporche di ignoranza e di iniquità, perché chiamano “normale” ciò che la Scrittura chiama «abominio» (cfr. Deut. 18,9-14).

Ripeto: questo non è l’unico né il maggiore fra gli esempi che si potrebbe fare, ma è significativo perché mostra il cuore del problema. Se Dio guarda le nostre mani e vede che sono impegnate a tenere vivo un flusso di immagini, parole e simboli che normalizzano ciò che Lui dichiara oscuro, come può prendere sul serio le stesse mani quando si alzano in segno di adorazione? Si crea una frattura interiore: con la bocca benediciamo, con le scelte quotidiane alimentiamo ciò che Dio condanna.

Isaia, però, non si limita a denunciare; apre una porta alla stessa comunità di credenti che pensa di "essere a posto con Dio":

Lavatevi, purificatevi [...] Venite, ragioniamo assieme, dice YHWH: se i vostri peccati sono come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve (1,16.18)

La soluzione non è rinunciare al culto, ma purificare le mani e riallineare il culto con la giustizia. È in questa prospettiva che le parole di Yeshua in Matteo 24 assumono una forza particolare.


Besorah (Mt. 24,1-22)

Quando l’iniquità sarà moltiplicata

Yeshua esce dal Tempio. I discepoli gli mostrano le costruzioni, l’imponenza delle pietre. Lui risponde con una frase che dev’essere caduta come una scure: «Non resterà qui pietra su pietra che non sia diroccata» (24,2). È come se dicesse: “Non illudetevi che la solidità esteriore del culto garantisca la stabilità davanti a Dio”. La storia di Gerusalemme, che Isaia aveva già intravisto, arriva al suo compimento: un culto senza giustizia non regge alla prova del giudizio.

Nel discorso che segue, Yeshua parla di inganni, guerre, carestie, persecuzioni. Ma il versetto che lega in modo particolare questa Besorah alla Haftarah è: «Poiché l’iniquità (anomìa) sarà moltiplicata, l’amore di molti si raffredderà» (Mt. 24,12). La parola “anomìa” non sifnifica letteralmente «iniquità», è letteralmente la «mancanza di Torah», il rifiuto della legge di Dio nella prassi concreta. Non è solo corruzione “fuori” dal popolo di Dio; è raffreddamento dell’amore “dentro”, proprio tra coloro che, apparentemente, continuano a parlare di Dio, a invocare il Suo Nome, a tenere incontri e celebrazioni.

Qui la linea si tende: da Deuteronomio a Isaia, fino a Matteo, il messaggio resta lo stesso. Quando la giustizia viene abbandonata, il culto diventa fragile. Quando l’iniquità diventa “normalità” sociale, anche l’amore dei credenti rischia di congelarsi. Eppure Yeshua non destina i Suoi discepoli al fallimento; li chiama a un’altra via: «Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato» (24,13).

Perseverare, in questo contesto, non significa solo resistere a persecuzioni esteriori, ma resistere alla tentazione di un culto disincarnato, staccato dalla giustizia, che rende lecito quello che Dio considera illecito. Significa continuare ad amare quando è più facile chiudersi; continuare a difendere l’orfano e la vedova quando conviene guardare altrove; continuare a rifiutare la logica dell’occulto anche quando è travestita da intrattenimento; continuare a giudicare senza parzialità, anche quando farlo costa relazioni e consensi.


Conclusione

Se mettiamo insieme la Parashah, la Haftarah e la Besorah, emerge una domanda diretta, che non possiamo eludere: che cosa vedrebbe YHWH se oggi guardasse le nostre mani? Vedrebbe mani che si alzano, ma che al tempo stesso tengono strette preferenze ingiuste, compromessi con l’iniquità, indifferenza verso gli oppressi e complicità con l’occulto travestito da divertimento? Oppure vedrebbe mani che, pur fragili, imparano ad allinearsi al suo cuore: mani che ascoltano il piccolo come il grande, mani che si aprono per difendere chi non ha voce, mani che rinunciano a nutrirsi di ciò che profana il Nome, mani che servono in silenzio?

L’invito, oggi, non è a moltiplicare attività religiose, ma a tornare alla sorgente. Forse il primo atto di adorazione autentica che siamo chiamati a compiere è proprio quello che Isaia riassume con verbi semplici: «Cessate… imparate… cercate… soccorrete… difendete…» (Is. 1,16-17). Prima di alzare le mani, chiediamo allo Spirito di mostrarci dove devono essere lavate; prima di organizzare un altro incontro, chiediamoci quali relazioni dobbiamo sanare, quale ingiustizia dobbiamo smettere di tollerare, quale “intrattenimento” dobbiamo avere il coraggio di lasciare, perché non è neutro agli occhi di Dio.

Sul piano personale, questo può voler dire rivedere cosa guardiamo, cosa consigliamo, come parliamo, come trattiamo chi è più debole o scomodo. Sul piano comunitario, può significare rimettere al centro l’imparzialità e la trasparenza nelle decisioni, dare spazio ai piccoli e non solo ai “volti” più visibili, non avere paura di affrontare conflitti con verità e amore, sapendo che «il giudizio appartiene a Dio» (Deut. 1,17).

YHWH non ci chiama a mani perfette, ma a mani purificate. Yeshua non ci promette un tempo facile, ma una salvezza certa per chi persevera nell’amore. Lasciamo che la lettura di oggi ci porti a una preghiera molto concreta:

Signore, fammi alzare mani pulite. Mostrami dove la mia adorazione è scollegata dalla giustizia. Lavami dove le mie mani sono piene di sangue, di indifferenza, di ignoranza. Insegnami a giudicare senza riguardi personali, ad adorarti senza maschere, ad amare senza calcoli. Fa’ che, nei giorni in cui l’iniquità si moltiplica, il mio amore non si raffreddi, ma si approfondisca in Te, Yeshua, giusto Giudice e difensore dei deboli. Fa che possa dire "Signore, Signore" ed essere conosciuto/a davvero da te. Nel nome di Yeshua.

Ascolta la parashah di Daniele del 21/07/2023


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