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Parashat Metzora' (Lev. 14,1—15,33)

Oltre l'impurità: il cammino verso la libertà interiore
2 agosto 2025 di
Parashat Metzora' (Lev. 14,1—15,33)
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

L’impurità è una condizione che attraversa i secoli, le culture e le religioni, inscritta nei corpi, codificata nei rituali, proiettata sul diverso. Ma cosa significa veramente essere impuro? È forse una questione biologica, visibile, oggettiva? Oppure si tratta di uno stato interiore, spirituale, etico, invisibile ma reale? Le letture di oggi (Lev. 14–15; 2 Re 7,3-20 e Mc. 1,35-45) ci pongono davanti a questa domanda, in forma drammatica e simbolica: cosa rende l’uomo veramente puro? Chi decide chi resta fuori? E come si può rientrare?

Attraverso queste Scritture, emerge un percorso che parte da un rigido sistema cultuale di purificazione, passa per un evento inaspettato in mezzo a una carestia, e giunge infine al gesto compassionevole e scandaloso del Messia che tocca l’impuro. Il cammino si muove dalla legge al cuore, dalla segregazione alla comunione, dalla ritualità alla grazia. E ci chiama, oggi, a un discernimento spirituale: perché è possibile osservare tutti i codici della purità, eppure restare prigionieri della paura e del giudizio.


Parashah (Lev. 14–15)

La purificazione come accesso alla vita comunitaria

Nei capitoli 14 e 15 del Levitico troviamo un complesso sistema di purificazione legato alla tzara'at (lebbra, guarda il video correlato), alle perdite corporee e ai flussi sessuali. Si tratta di una parte della cosiddetta legislazione sacerdotale, fortemente incentrata sulla distinzione tra puro e impuro, tra ciò che può avvicinarsi al culto e ciò che deve restarne lontano. L’impurità non è qui necessariamente peccato, ma è ciò che disordina l’ordine sacro, ciò che interrompe la continuità tra la vita e Dio.

Il lebbroso, secondo Lev. 13:45-46, doveva vivere michutz lammachaneh, cioè «fuori dall’accampamento», isolato, coprendosi il volto e gridando «impuro!». La sua reintegrazione sociale e cultuale richiedeva un processo elaborato: due uccelli (uno sacrificato, l’altro lasciato libero), aspersioni, rasature, sacrifici, atti di espiazione. L’impurità è qui una frattura simbolica: il corpo malato rompe l’ordine, il fluido che esce è emblema di disgregazione, di perdita del controllo, di contaminazione.

Eppure, dietro questa simbologia, si cela una verità antropologica: la fragilità umana spaventa, e per questo viene esclusa, classificata, codificata. L’impuro è il "diverso", il disfunzionale, l’instabile. Ma è anche, paradossalmente, colui che ha bisogno di essere incontrato, toccato, purificato, affinché possa tornare a vivere pienamente.

Nel linguaggio levitico, la purificazione è un rito di riappacificazione tra l’uomo, il suo corpo e la comunità. Ma resta un limite: tutto è affidato non a un medico ma al kohen (sacerdote), ai simboli, ai cicli, ai giorni. La purità è sempre precaria, sempre a rischio di essere perduta. La libertà vera, quella interiore, è ancora lontana.


Haftarah (2 Re 7,3-20)

I lebbrosi che diventano portatori di salvezza

La haftarah ci offre una scena tanto drammatica quanto ironica. La Samaria è assediata dagli Aramei, la fame è estrema, l’angoscia collettiva. Ma la svolta non avviene grazie al re, né al profeta, né ai militari. Avviene fuori dalle mura, dove quattro lebbrosi, condannati all’esclusione, decidono di rischiare la vita avvicinandosi all’accampamento nemico.

È un gesto disperato, ma carico di un’intuizione: «Perché dobbiamo morire qui?». Nella loro marginalità, questi uomini intravedono la possibilità di un’alternativa. E così scoprono che l’accampamento nemico è deserto: Dio ha provocato una fuga misteriosa degli Aramei. I lebbrosi cominciano a mangiare, a prendere, a godere della provvidenza. Ma poi si fermano, colpiti dalla coscienza: «Non facciamo bene. Questo è un giorno di buone notizie e noi tacciamo».

Queste parole sono teologicamente esplosive. I lebbrosi, gli impuri, i rifiutati, diventano gli evangelizzatori, i testimoni della salvezza. Coloro che non potevano entrare in città, ora tornano con un euangelion (buona notizia). Nonostante la loro condizione, diventano strumento della grazia.

Qui la Bibbia opera un ribaltamento profetico: chi è impuro secondo la Torah, è invece puro nella coscienza e nel coraggio. Chi è fuori, è in realtà più vicino alla salvezza di chi è dentro. L’impurità rituale è smontata dall’etica della responsabilità, dalla compassione, dalla verità. Non chi è sano di corpo, ma chi è libero interiormente, può fare il bene.


Besorah (Mc. 1,35-45)

Il tocco che rovescia l’impurità

Nel Vangelo secondo Marco troviamo un episodio che rovescia e compie tutta la tradizione precedente. Un lebbroso si avvicina a Yeshua e, invece di essere allontanato, viene ascoltato, accolto, toccato e guarito. «Se vuoi, puoi purificarmi», dice. Non chiede solo guarigione, ma purificazione, cioè il reinserimento pieno, la dignità, la comunione.

Il testo dice che Yeshua, mosso a compassione, lo tocca. È un gesto scandaloso: il puro che tocca l’impuro, diventando legalmente impuro egli stesso. Ma il Vangelo mostra un’altra logica: la purezza di Yeshua non viene contaminata per contagio con l'impuro, ma è quella che contagia l'impuro e lo purifica! Il tocco di Dio non si ritira davanti all’impurità, ma la trasforma. Solo YHWH incarnato è Colui che non contrae l'impurità se la tocca.

Qui si rivela il cuore del messaggio del Regno: l’impurità non è un limite per la grazia. È, anzi, il luogo in cui la grazia si manifesta con più forza. Il lebbroso è purificato, ma Yeshua gli impone il silenzio. Tuttavia, egli non può tacere: la libertà interiore è ormai esplosa, il cuore purificato non può restare chiuso. Il "non dire niente a nessuno" di Yeshua, che gli studiosi chiamano il "segreto messianico" (ovvero che invitava a stare in silenzio dopo un miracolo perché non era ancora giunto il momento di palesarsi) sembra più l'invito a fare l'esatto contrario: "Non è che adesso te ne starai zitto, vero? Non è più il tempo dell'emarginazione, ma della reintegrazione".

Il Vangelo ci mostra che la purificazione vera è un atto d’amore, non di rituale. È la compassione che guarisce. E l’impurità più profonda non è nel corpo, ma nel cuore che giudica (cfr. Mt. 15,11.18), che esclude, che non si lascia toccare.


Conclusione

Alla luce della Parola di Dio, emerge una verità radicale: la vera impurità è la separazione, l’isolamento, il distaccamento dalla comunità di fede, la paura dell’altro. E la vera purificazione è il ritorno alla relazione, alla riconciliazione, alla fiducia, alla libertà interiore che permette di amare e lasciarsi amare.

Il sistema levitico ci insegna la gravità del disordine, ma resta chiuso nel formalismo. L’episodio dei lebbrosi di 2 Re ci mostra che l’etica può superare la Torah, così come la possibilità di salvare una vita umana consente la mortale violazione dello Shabbat. Il gesto di Yeshua ci rivela che la santità autentica è contagiosa, perché è fatta di misericordia. La grazia non teme il contatto, ma lo cerca. Non si ritrae dalla fragilità, ma vi entra per redimerla.

Oggi, in un tempo in cui le categorie di puro e impuro si sono trasformate in etiche sociali, morali, ideologiche, siamo chiamati a discernere dove si nasconde la vera impurità: forse nel cuore che non ascolta, nell’anima che non condivide, nell’ego che giudica. E siamo chiamati, come i lebbrosi salvati, a non tacere ciò che abbiamo ricevuto.

Perché la vera purezza è la libertà di amare come siamo stati amati.


Ascolta la parashah di Daniele Salamone (22/04/2023)


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