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Parashat Tzav (Lev. 6,1—8,36)

Il fuoco che non si spegne: il ministero di riconciliazione dal sacrificio al Messia
12 luglio 2025 di
Parashat Tzav (Lev. 6,1—8,36)
Yeshivat HaDerek, Daniele Salamone
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Introduzione

La Parashah Tzav (Lev. 6,1–8,36), la Haftarah (Mal. 3,4-24) e la Besorah (Mt. 17,9-13) di oggi tracciano un filo d’oro che attraversa le Scritture, tessendo insieme il culto levitico, l’annuncio profetico della purificazione escatologica e la manifestazione messianica nel Figlio dell’uomo. Il tema che accomuna queste tre porzioni è il fuoco sacro — non solo quello che consuma le offerte sull’altare, ma quello che arde nell’anima dei servitori di Dio, nella bocca dei profeti e nella figura trasfigurata del Messia.

Il fuoco, nelle Scritture, è segno della presenza divina, della purificazione e del giudizio. Esso è al tempo stesso dono e responsabilità: deve essere custodito, alimentato e non spento. Questo fuoco, che arde costantemente sull’altare (Lev. 6,6), è il simbolo vivente del patto eterno, che trova compimento nella figura del Servo sofferente e glorificato, Yeshua il Messia.


Parashah (Levitico 6,6; 8)

Il fuoco perpetuo del sacrificio

Il cuore della Parashah Tzav è il comando riguardante l’olocausto continuo:

Il fuoco sull’altare dovrà rimanere acceso, non si spegnerà mai (Lv 6,6)

Questo fuoco sacro, originato dalla gloria divina, non è un semplice strumento rituale, ma una manifestazione visibile dell’alleanza tra Israele e YHWH. Ogni mattina il sacerdote alimenta quel fuoco, aggiungendo legna e bruciando l’olocausto quotidiano. Questo gesto diventa il paradigma di una vita consacrata: avodah tamid — un servizio continuo, instancabile, santo.

La porzione illustra in dettaglio i sacrifici: l’olocausto, l’offerta di cibo, il sacrificio per il peccato e quello di ringraziamento. Tuttavia, ciò che emerge con forza è la centralità del sacerdozio come strumento di riconciliazione. Aronne e i suoi figli vengono consacrati mediante riti solenni e reiterati (Lev. 8). L’unzione con olio, il sangue asperso, le vesti sante e l’offerta comune richiamano la natura rappresentativa del loro servizio: essi sono mediatori, ma anche parte del popolo bisognoso di purificazione.

Il fuoco sull’altare è dunque specchio di un’altra realtà: l’urgenza di un fuoco interiore, un cuore che non si spegne, che arde di zelo, di fedeltà, di devozione. Questo fuoco è destinato a trovare compimento nel Messia, in cui l’offerta perfetta e il fuoco eterno si uniscono. Egli non solo porta il sacrificio: Egli è il sacrificio vivente (cfr. Is. 53,10).


Haftarah (Malachia 3,4-24)

Il fuoco del giudizio e della purificazione

Il profeta Malachia, ultimo della serie canonica che chiude l'epoca profetica veterotestamentaria fino all'avvento di Giovanni il Battezzatore, rivolge parole dure ma piene di speranza a un popolo che ha smarrito il senso del culto. Il fuoco di cui egli parla non è più solo quello dell’altare levitico, ma quello del Crogiolo Divino:

Egli si sederà come colui che affina e purifica l’argento (Mal. 3,3)

Qui il fuoco diventa strumento di purificazione escatologica. YHWH stesso verrà nel Suo Tempio, come fuoco ardente e come sapone di lavandai, per purificare i figli di Levi.

Il profeta non abolisce il culto: al contrario, ne auspica il riscatto. Le offerte torneranno gradite all’Eterno, «come nei giorni antichi» (v. 4), ma ciò sarà possibile solo attraverso una trasformazione profonda, che riguarda i cuori più che i rituali. La centralità del sacerdozio rimane, ma in prospettiva futura, rinnovata: il sacerdote deve essere fuoco vivente, ish elohim (uomo di Dio), messaggero dell’alleanza (Mal. 2,7).

La chiusura del libro preannuncia l’avvento di Elia, il profeta del fuoco (2 Re 1), il precursore del grande e terribile giorno di YHWH (Mal. 3,23). Questo rimando escatologico connette direttamente la Haftarah alla Besorah: infatti, Elia è figura chiave nella rivelazione messianica. L’annuncio del fuoco purificatore, che giudica ma anche salva, prepara il cuore del popolo al compimento definitivo: il Messia.


Besorah (Matteo 17,9-13)

Il fuoco della trasfigurazione e il ritorno di Elia

Nel brano matteano, i discepoli scendono dal monte dopo aver assistito a un evento celeste: la trasfigurazione del Messia. Il volto di Yeshua ha brillato come il sole, le Sue vesti sono divenute bianche come la luce (Mt. 17,2) e Mosè ed Elia sono apparsi con Lui, in dialogo. Questo episodio è carico di simbolismo: la Torah e i Profeti (Mosè ed Elia) testimoniano della gloria futura del Figlio dell’uomo, mentre il fuoco divino si manifesta non più nell’altare di pietra, ma nel corpo glorificato di Yeshua.

Il richiamo a Elia, che «deve venire prima», svela una profonda realtà escatologica. I discepoli non comprendono subito, ma Yeshua spiega che Elia è già venuto nella figura di Giovanni il Battista (e Giovanni non va inteso come un Elia reincarnato, ma come il suo spirito profetico abbia investito lo stesso Giovanni). Come il fuoco dell’altare doveva essere continuo, così la testimonianza profetica non si è mai spenta: da Mosè a Malachia, da Elia a Giovanni, il fuoco della Parola è stato custodito fino al Suo pieno adempimento nel Messia.

In questo brano, il tema del fuoco si trasfigura in luce: la luce della gloria, promessa dai profeti, che ora si rivela nel volto del Messia. Non è più un fuoco che consuma l’agnello sull’altare, ma una luce che rivela l’Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. Il sacrificio è imminente, ma sarà definitivo. Il vero fuoco arde ora nel cuore di coloro che ascoltano e riconoscono in Yeshua l’Eletto.


Conclusione

Dalla Torah al Profeta, dal Monte Sinai al Monte della Trasfigurazione, lo stesso fuoco arde: un fuoco che purifica, che giudica, che consacra. Nella Parashah, vediamo l’origine di quel fuoco nel culto levitico; nella Haftarah, ne riconosciamo il potere trasformativo in vista del giorno di YHWH; nella Besorah, contempliamo il suo compimento nella persona di Yeshua, il Messia glorificato.

Questo fuoco è lo Spirito Santo, che arde nei cuori di chi si consacra, che purifica come fuoco, che illumina come la gloria sul volto di Yeshua. Esso non si spegne, se viene custodito con fede, con timore, con amore. Come i sacerdoti aggiungevano legna ogni mattina, così il discepolo aggiunge obbedienza, umiltà e zelo ogni giorno.

Siamo chiamati a essere altari viventi, a custodire il fuoco santo del Messia. E come Mosè vide un roveto ardere senza consumarsi (Es. 3,2), così anche noi, arsi dal fuoco della Sua presenza, possiamo vivere, servire e testimoniare senza mai spegnerci, finché non vedremo il Fuoco stesso tornare in gloria.

Maranatha.


Ascolta la parashah di Daniele Salamone (01/04/2023)


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