Responsabilità ermeneutica della lettura biblica
L’interpretazione scritturale richiede rigore e umiltà: è un viaggio nel tempo e nella storia sacra dove ogni parola acquista senso solo nella trama più ampia del testo. Spesso invece vediamo versetti isolati come citazioni a effetto, disancorati dal contesto originale, e ciò genera equivoci teologici. Prendiamo come esempio Luca 12,19 che riporta il pensiero del ricco insensato che dice a se stesso:
Anima, tu hai molti beni ammassati per molti anni; ripòsati, mangia, bevi, divertiti.
Estrapolato, sembra addirittura un programma di vita accettato da Yeshua, ma lettura completa della parabola dimostra esattamente il contrario. Nel racconto Yeshua dipinge questo ricco come stolto, poiché Dio domanda al suo cuore insaziabile:
Stolto, proprio questa notte la tua anima sarà ridomandata.
Il contesto ribalta il significato: il versetto isolato diventa pretesto per un’eresia del godimento individualista di prosperità, mentre il brano intero educa all’attenzione verso il vero valore della vita.
Analogamente, il celebre Geremia 29,11 – «Io so i pensieri che medito per voi… pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza» – è spesso citato come assicurazione universale di successo individuale. Ma nella lettera agli esiliati in Babilonia esso invitava a sperare collettivamente nonostante la dura condizione. Anche questo esempio insegna: ogni citazione va colta nel suo tempo e nella sua situazione, altrimenti si rischia di piegarla a significati estranei alla Scrittura.
Unità narrativa e teologica delle Scritture
Il filosofo e teologo Walter Brueggemann ricorda che «non esiste un’interpretazione priva di interessi». Ogni lettura avviene alla luce di punti di vista, precomprensioni e necessità del lettore. Per Brueggemann lo studio biblico è un esercizio dialettico continuo: la Torah ha
un sovrano intransigente al centro, ma un’estrema elasticità interpretativa che implica un lavoro ermeneutico infinito, senza mai chiudere definitivamente il caso.
In altre parole, l’unico modo di maneggiare la Scrittura è riconoscere la nostra caducità e il carattere vivente del testo: come un’opera d’arte, la Bibbia invita a una contemplazione costante, non a fugaci raccolte di versi a effetto.
Questo approccio accademico e insieme spirituale trova conferma anche nel cristiano N. T. Wright, che insiste sulla necessità di una lettura totalmente contestuale della Bibbia. Wright avverte che
ogni parola deve essere compresa all’interno del proprio verso, ogni verso nel proprio capitolo, ogni capitolo nel proprio libro e ogni libro nel suo contesto storico e culturale.
Da questo punto di vista, il nostro tempo – caratterizzato da un pluralismo interpretativo – richiede di conoscere bene l’ambiente di chi scriveva: geografia, lingua originale, circostanze politiche e religiose dell’epoca. Senza queste chiavi di lettura, versi come «Infatti Io so i pensieri che medito per voi» (Ger. 29,11) perdono la ricchezza del contesto, diventando panacea facile invece di profezia rivolta a un popolo in catastrofe. Wright stesso afferma che leggere la Bibbia nel suo vero contesto significa ritrovare «l’autorità di Dio esercitata attraverso la Scrittura», piuttosto che un semplice calcolo di regole immutabili.
Dimensione spirituale dello studio biblico secondo Heschel
Anche il pensatore ebreo Abraham Joshua Heschel sottolinea la dimensione viva della Parola di Dio. Heschel descrive l’atto di studiare la Torah non come uno sterile esercizio intellettuale, ma come un’impegno profondo: «l’ingaggio con la Torah è il risultato dello studio e della comunione con le sue parole». Con questa espressione Heschel ci fa vedere la Bibbia come un dialogo continuo tra Dio e l’uomo, al quale si partecipa prestando attenzione a ciò che il testo dice nel suo insieme. Sminuire il valore della comunione con le Scritture, isolando frasi a seconda del comodo, ne svuota il potere trasformante. Del resto, come scrive Heschel, «Il sapore del paradiso che percepiamo sulla terra è nella Bibbia»: togliere un versetto da lì equivale a diluire il vino più pregiato fino a renderlo acqua insipida.
Perciò lo studio critico e il rispetto del testo unico sono fondamentali. Attraverso i secoli, commentatori autorevoli (come Brueggemann e Heschel) e biblisti contemporanei (come Wright) ci ricordano che la Rivelazione va custodita nella sua integrità. Esse diventano unitaria solo dentro la trama delle storie e dei generi che compongono la Bibbia. Praticare l’ermeneutica responsabile significa dunque resistere alla tentazione di affermazioni semplicistiche: bisogna leggere ogni passo alla luce di tutto ciò che lo circonda, valorizzando le sfumature del linguaggio originale e del contesto di riferimento. Allo stesso tempo richiede attenzione all’insieme della fede: per Wright, per esempio,
non esiste una dottrina della Bibbia nella Scrittura stessa, perché essa non parla principalmente di sé stessa ma di Dio e del Suo popolo.
Ciò ci esorta alla perenne conversione del cuore, a non accontentarci di interpretazioni preconfezionate.
Nel dibattito odierno sul ruolo della Scrittura, emerge la sfida di tenere insieme rigore accademico e passione spirituale. La storiografia, le lingue bibliche, l’archeologia e la critica letteraria sono strumenti che affiancano la devozione personale: ogni nuova scoperta e ogni traduzione esatta ci avvicinano al senso autentico del testo. Ma la responsabilità ultima ricade su ciascun lettore: dobbiamo essere consapevoli delle nostre categorie interpretative. In questo senso, riprendo la lezione di Brueggemann secondo cui una Bibbia “ribelle” richiede da parte nostra uno «sforzo ermeneutico senza fine». La stessa audacia degli antichi profeti è una guida: Essi parlavano «in scena», cioè nel contesto vivente del popolo, non in laboratorio intellettuale.
Come si applica una corretta esegesi? Vediamo il caso di Malachia 2,17b.
Chiunque fa il male è gradito a YHWH, Egli si compiace di lui.
A primo acchito, Malachia sembra esprimere una blasfemia. Se si isola questa porzione del versetto, si può facilmente giungere a una conclusione gravemente errata: che Dio approvi coloro che fanno il male, o peggio, che si compiaccia dell’ingiustizia. Questa è una cattiva esegesi, in quanto prende una frase decontestualizzata e ne fa una proposizione teologica autonoma, senza considerare né il tono retorico né la struttura del versetto né il genere letterario.
📜 Esegesi del testo completo (Malachia 2,17):
Voi stancate YHWH con le vostre parole, eppure dite: "In che modo lo stanchiamo?" Quando dite: "Chiunque fa il male è gradito a YHWH, Egli si compiace di lui"; oppure: "Dov'è il Dio di giustizia?".
L’analisi testuale mostra che:
- Il profeta non sta enunciando un'affermazione teologica, ma sta riportando una lamentela del popolo.
- Il soggetto implicito dell'affermazione incriminata non è Dio, bensì gli uomini corrotti, i quali parlano con arroganza e cinismo.
- Il tono dell’intero versetto è polemico e accusatorio: Dio, attraverso il profeta, rimprovera Israele per avere il coraggio di dire simili parole, insinuando che Dio favorirebbe gli empi.
Questo è un classico esempio di linguaggio profetico ironico, dove il profeta espone e condanna un pensiero umano distorto, non lo approva. L’affermazione «chiunque fa il male è gradito a YHWH» non è ciò che Dio pensa, ma ciò che alcuni israeliti dicevano nel loro lamento e nella loro crisi di fede, turbati dall’apparente impunità dei malvagi.
🔍 Ermeneutica
A livello ermeneutico, occorre porsi due domande:
- Perché il popolo dice queste parole?
- Cosa intende Dio rivelare attraverso la condanna di queste parole?
Il versetto va letto alla luce della crisi spirituale post-esilica: molti giudei osservavano che i malvagi prosperavano mentre i giusti soffrivano, e quindi cominciavano a dubitare della giustizia di Dio. Questo porta a un atteggiamento cinico: “Dio premia i malvagi, si compiace del male”. Non è teologia rivelata, ma teologia distorta prodotta dallo sconforto umano.
Dio, attraverso Malachia, corregge questa percezione. Nei versetti successivi (3,1-5), infatti, annuncia il veniente «messaggero dell’alleanza», il quale purificherà Israele e farà giustizia. La funzione ermeneutica del versetto è dunque preparatoria e rivelatrice: Dio non tollera l’ingiustizia, e le parole del popolo sono parte della colpa per cui Israele ha bisogno di purificazione.
Conclusione
Se ci si limita a citare: «chiunque fa il male è gradito a YHWH», si crea una teologia blasfema che attribuisce a Dio una complicità con il male. Ma con l’esegesi del contesto e un’ermeneutica rispettosa dell’intenzione del testo, si comprende che il versetto non riflette il pensiero di Dio, bensì un errore umano che Dio condanna.
Questo esempio dimostra quanto sia pericoloso estrapolare versetti dalle Scritture. Solo lo studio rigoroso, contestuale e rispettoso della voce profetica — come si pratica alla Yeshivat HaDerek — può preservare l’integrità del messaggio biblico.
Conclusione
Concludendo, sento di dover rivolgere un appello personale a chi desidera un percorso serio e profondo di studio della Scrittura. Leggere la Bibbia significa impegnarsi in un’arte esigente e appassionante insieme. Per questo motivo, invito il lettore interessato a considerare lo studio presso la Yeshivat HaDerek, che offre un approccio sia accademico che teologico ai testi biblici unito a un impegno spirituale. Qui gli studenti sono guidati a esplorare le Scritture con rigore esegesi e cuore aperto, seguendo l’esempio di comunità antiche di studiosi.
In prima persona posso testimoniare che una formazione così scandita dalla ricerca del contesto e della tradizione ci arricchisce interiormente e ci prepara a vivere la Parola in modo autentico. Se il desiderio è quello di ascoltare la voce della Bibbia nella sua piena autorità, vi esorto a intraprendere questo cammino impegnativo alla Yeshivat HaDerek, dove passione e rigore si fondono per far emergere ogni verità nascosta tra le pagine sacre.
Se sei interessato/a a saperne di più, visita questa pagina per ulteriori dettagli: https://www.haderek.it/iscriviti-alla-yeshiva