Introduzione
La parola ebraica mattot, da cui prende il nome la parashah, significa «tribù» o «verghe», e rappresenta le diverse famiglie del popolo d’Israele. La verga, simbolo di autorità, guida, giudizio e correzione, diventa per noi la chiave interpretativa che ci accompagna attraverso le varie porzioni: nella parashah essa rappresenta il giudizio divino; nella haftarah esprime la disciplina e la correzione verso il popolo di Dio ribelle; nella besorah la parabola del fico sterile diventa emblema dell’intercessione del Messia per sottrarre l’uomo alla verga del giudizio.
Il giudizio divino, come vedremo in seguito, è sempre giusto, insindacabile e imparziale, e ha come fine ultimo il preservare la santità di un popolo chiamato a essere santo come YHWH è santo. La giustizia non è in contrasto con l’amore e la misericordia: amore e giustizia sono un’unità inseparabile, poiché entrambi appartengono all’essenza divina.
Eccidio e genocidio, una differenza di scopo e intenzione
Secondo il Vocabolario Treccani, il termine eccidio indica un’uccisione collettiva di più persone, compiuta in modo violento e crudele. Si tratta di un atto di strage che può avvenire per vendetta, rappresaglia o odio, ma non implica necessariamente un intento di eliminazione sistematica di un gruppo umano. L’eccidio, dunque, descrive il fatto in sé — il massacro — senza un fine politico o ideologico specifico.
Il genocidio, invece, è definito come lo sterminio intenzionale e sistematico di un gruppo etnico, nazionale, religioso o razziale. È un termine di origine giuridica, introdotto nel diritto internazionale dopo la II Guerra Mondiale, e indica la volontà di annientare completamente un gruppo umano in quanto tale.
La differenza sostanziale tra i due termini risiede quindi nel fine ultimo: l’eccidio mira alla distruzione fisica di un numero elevato di persone, spesso in un singolo episodio; il genocidio ha come scopo la cancellazione totale dell’identità e dell’esistenza di un popolo o di una comunità (pulizia etnica), perseguita attraverso un piano organizzato e continuativo.
Pertanto ogni genocidio implica una serie di eccidi, ma non ogni eccidio costituisce un genocidio.
Parashah (Num. 30,2–32,42)
La vittoria sui Madianiti: Israele come verga di giudizio
Nella parte centrale della parashah (Num. 31) troviamo la descrizione della guerra degli Israeliti contro i Madianiti (vv. 1-2), durante la quale vengono uccisi i re di Madian e il profeta Balaam (v. 8) che aveva istigato Israele all’idolatria e alla fornicazione (v. 16). Mosè, per ordine di YHWH, comanda ai capi delle tribù di scegliere mille uomini per la battaglia (v. 5). I dodicimila soldati obbediscono, ma in modo incompleto (v. 9): tornano con il bottino, i fanciulli e le donne, provocando l’ira di Mosè, che ordina di risparmiare soltanto le vergini (vv. 14-18).
Dopo la battaglia i guerrieri dovevano purificarsi secondo le leggi mosaiche e restare fuori dall’accampamento per sette giorni, mentre il bottino veniva diviso tra i soldati, il popolo e una parte destinata a YHWH.
Sebbene questo episodio possa apparire cruento e difficile da accettare, rivela profonde implicazioni teologiche.
- Non si tratta di una vendetta personale di Mosè, ma di un ordine diretto di YHWH. La guerra rappresenta l’esecuzione di una giusta sentenza divina contro una nazione colpevole, le cui donne avevano contribuito alla corruzione di Israele (Num. 25,16-18; 31,15-16).
- Il risparmio delle vergini indica che la giustizia di Dio non è cieca, ma equa: Egli riconosce l’integrità, simboleggiata da chi non si è contaminato.
- La vittoria senza perdite tra gli Israeliti manifesta la potenza e la protezione divina.
Nella Torah il principio di rimuovere il male o l’impurità è sia rituale (legato al contatto con ciò che contamina), sia morale (legato al peccato e alla ribellione) (Deut. 13,5; 17,7; 19,19; 21,21; 22,21; 24,7). In entrambi i casi lo scopo è mantenere la santità del popolo e la presenza di Dio in mezzo a Israele, poiché la santità divina non può coesistere con l’impurità (Lev. 19.2).
Il giudizio di Dio ha anche una funzione pedagogica e deterrente: non mira alla distruzione totale di un popolo, ma all’eliminazione di ciò che è corrotto. Il fatto che le vergini vengano risparmiate dimostra che Dio non emette sentenze impulsive, ma giuste, e che l’integrità preserva dal giudizio divino (Prov. 10,9; 11,3).
Inoltre, la verginità sessuale non è sufficiente per non essere passibili di giudizio divino, perché occorre una purezza e integrità che va oltre il mero fisico-carne; deve toccare anche quella del cuore. Non basta essere puri nella carne per cancellare l'impurità nello spirito. Se mai è vero il contrario: la purezza interiore è quella che purifica anche l'esteriore.
Haftarah (Ger. 1,1–2,3)
Geremia: chiamato profeta a correggere il popolo ribelle
Geremia viene consacrato fin dal grembo materno per essere il profeta (Ger. 1,5) che richiama Israele al ravvedimento, cioè al ritorno a Dio e alla santità. Il popolo si era abbandonato all’idolatria (v. 16) e aveva trascurato l’osservanza dell’anno sabbatico e del Giubileo. La mancanza di pentimento portò a gravi conseguenze: l’invasione degli Assiri nel regno del Nord e dei Babilonesi nel regno del Sud (vv. 14-15). La distruzione del Tempio e di Gerusalemme, insieme all’esilio, furono manifestazioni del giudizio divino contro un popolo ostinato.
Vediamo dunque che anche il popolo di Dio non è esente dal giudizio. Nella parashah Israele è lo strumento di Dio per punire una nazione colpevole; nella haftarah, invece, sono le nazioni straniere a essere strumenti del giudizio divino contro Israele ribelle. Dio è giusto e imparziale: non fa distinzione di persone, non applica due pesi e due misure (Lev. 19,35-36; Deut. 25-13-16). Il profeta agisce come portavoce di Dio per richiamare il popolo sviato a essere nuovamente santo. Le minacce e gli avvertimenti di Geremia, riguardanti le invasioni straniere, avevano uno scopo correttivo: la verga di Dio qui rappresenta la disciplina e la correzione di un Padre amorevole che desidera riportare i suoi figli sulla giusta via (Deut. 3,11-12; Prov. 13,24).
Besorah (Lc. 13,1-10)
La paroabola del fico sterile
In questa sezione troviamo la parabola del fico sterile (Lc. 13,6-9): un uomo, dopo tre anni di attesa, non trova frutti sul suo fico e ordina di tagliarlo perché occupa inutilmente il terreno. Il vignaiolo, però, lo supplica di concedergli ancora un anno per zappare e concimare il terreno, nella speranza che l’albero produca frutto; se rimarrà sterile, allora sarà abbattuto.
In questa parabola Yeshua è il vignaiolo che intercede presso il Padre, il padrone della vigna, pronto a tagliare l’albero che non porta frutti (leggi articolo correlato). La mancanza dei frutti dello Spirito (Gal. 5,22) è segno di sterilità spirituale, dunque di peccato; un albero che non produce è destinato al giudizio. Yeshua, come Intercessore, offre una nuova opportunità di salvezza attraverso il Suo ministero e la Sua passione. La sua cura – zappare e concimare – rivela la pazienza e la misericordia di Dio. Tuttavia, il tempo concesso rappresenta il tempo della grazia, limitato e non eterno: dopo la morte segue il giudizio, senza ulteriori possibilità (Eb. 9,27).
La parabola è quindi un invito urgente alla conversione, affinché la nostra vita porti frutto e non sia destinata all’ira futura (Rom. 5,9) che colpirà chi rimane sterile nel peccato (Giov. 3,36).
Conclusione
Nelle tre porzioni emerge che Dio è il giusto Giudice, che con sovrana autorità emette sentenze rette, imparziali e non soggette a revisione. Le sue decisioni non sono frutto di ira cieca, ma di discernimento: le vergini risparmiate ne sono una testimonianza.
Nella haftarah vediamo la Sua imparzialità: le nazioni straniere diventano strumenti del giudizio contro Israele che si è allontanato dal suo Dio. Il profeta Geremia è il messaggero incaricato di richiamare il popolo alla santità. Dio non si compiace della morte dell’empio, ma ammonisce e corregge affinché il popolo ritorni sulla retta via (Ez. 33,11). I Suoi giudizi hanno uno scopo educativo: disciplinare e purificare. Infine, nella parabola del fico sterile, l’intercessione del vignaiolo (Yeshua) rivela che misericordia e giustizia non si escludono, ma si completano: esse si fondono nella Tri-Unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che agiscono in perfetta armonia per la salvezza dell’umanità (Giov. 3,16-17; 14,16-17).
Pertanto, la nostra responsabilità è quella di lasciarci guidare e trasformare continuamente dallo Spirito Santo, per essere alberi che producono buoni frutti. La Parola di Dio è il concime che mantiene fertile il terreno del nostro cuore, e l’acqua dello Spirito è ciò che lo mantiene vivo, affinché cresca un albero sano e fruttifero.
Parashat Mattot (Numeri 30,2—32,42)